Lontano dalle televisioni con l’abbonamento in salotto, lontano dalla Viennetta Algida per l’occasione di una finale di coppa, ma in fondo vicino, molto vicino, ai vizi personali che manifestano l’attaccamento al gioco del pallone, ci sono le squadre chiuse per imperio dal potere politico. Nulla a che fare con gli attuali ultras che scimmiottano il nazismo, in questi casi basti ricordare una massima che non passa mai di moda e si può citare in qualunque scritto: “la storia si ripete sempre due volte…”. Per l’appunto, qui non si parla di scioperi del tifo o di minacce personali a giocatori o dirigenti, ma dello scioglimento forzato e totale di società di calcio da parte del potere costituito. Per cominciare da casa nostra, abbiamo conosciuto il regime fascista e la sua passione per il calcio.
L’insediamento in tutti i luoghi di potere da parte del fascismo, che ha subito capito l’importanza che poteva avere uno sport di massa, ha portato per prima cosa a un tentativo di riorganizzazione istituzionale. D’altro canto cattolici e socialisti facevano molta più fatica a inserire nel proprio sistema morale la legittimazione dello sport. Per i socialisti, nel 1910, esso debilitava e distruggeva il corpo umano, contribuendo complessivamente alla degenerazione della specie, e da quel momento in poi le discussioni furono accese quando infeconde. Per i fascisti invece lo sport aveva a che fare con la valorizzazione del corpo, con l’onore e con la vittoria. L’immagine che fornivano gli atleti italiani vincenti era un salto in avanti per il nazionalismo.
L’organizzazione del tempo libero in generale, dunque un campo d’intervento che riguardava soprattutto la gioventù, garantiva prima di tutto una via privilegiata nella cinghia di trasmissione tra il partito e le masse. Anche l’architettura aveva il suo ruolo, con la costruzione dei grandi stadi alla stregua di monumenti imperiali. Un grande campionato nazionale, e non più solo per macro-regioni geografiche, avrebbe dato il senso di nazione che ostinatamente cercavano i fascisti, soprattutto nella prima fase. Ecco allora che, per garantire il funzionamento di una macchina burocratica accentrata ma soprattutto per avere il dovuto impatto sulla popolazione, occorreva far sì che le grandi città fossero rappresentate da una sola società che giocava in nome del proprio territorio. Via dunque alle fusioni tra le società minori che popolavano le città più grandi.