L’artigianato sarà il futuro dell’Italia, perché la manifattura che abbiamo conosciuto è finita. E con essa i luoghi tradizionali del lavoro. Ma per dare una spinta ai nuovi artigiani serve un riadattamento del ministero dell’Istruzione alla società contemporanea, e la Buona Scuola sembra un’occasione persa. Parola di Piero Bassetti, il primo presidente della Regione Lombardia (1970-1974). Ottantasette anni, è stato deputato, presidente della Camera di commercio industria e agricoltura di Milano, di Unioncamere e dell’Associazione delle camere di commercio italiane all’estero. Oggi è presidente, tra le altre cose, di Globus et Locus, una fondazione nata nel 1997 che si occupa di fare proposte sul ruolo dell’Italia e degli italiani nell’economia globale.
In quale scenario ci muoviamo parlando di artigianato?
Nella terza rivoluzione industriale è l’artigianato il settore che diventerà egemone in Italia, abbiamo abbandonato la manifattura fordiana e ciò farà saltare tutti i ruoli connessi al capitalismo, pertanto dobbiamo scordarci l’operaio di Charlot ridotto scemo dalla catena di montaggio. Inoltre sono destinate a mutare le strutture di rappresentanza e i punti di riferimento dell’impresa come la conosciamo. Ma anche le banche, che in passato prelevavano i risparmi dei cittadini per ridistribuirli ai produttori, oggi devono fare i conti con fonti di finanziamento diverse. Il crowdfunding e i fondi hanno completamente sostituito il criterio del banchiere lombard; i maestri artigiani torneranno a essere centrali anche perché i servizi non hanno più bisogno di essere standardizzati e ripetitivi. Guardiamo al fenomeno dei makers in America, il paradigma è già cambiato. Questo è il contesto in cui si colloca la figura attuale dell’artigiano.
Di pari passo con i mutamenti dei modi di produzione registriamo variazioni anche rispetto ai luoghi del lavoro?
I modi di produzione hanno sempre condizionato i luoghi. Ad esempio il telaio a mano significava casa e famiglia, il coinvolgimento di un intero nucleo familiare con l’impresa. Viceversa il telaio in fabbrica non ha più come contesto la famiglia ma la Spa. Anche le città ci raccontano di queste mutazioni, pensiamo al quartiere Pirelli o alle Falck di Sesto San Giovanni, le trasformazioni urbanistiche in quei contesti sono notevoli. Lo stesso vale anche per il settore agricolo quando il rapporto tra produzione e consumo non passa dalle logiche del manifatturiero. Oggi i luoghi cambiano nuovamente: i Fab Lab e i Coworking sono l’esempio concreto di questo discorso.
«Non si può più parlare di una produzione italiana diversa dalla produzione francese, occorre ragionare su una produzione italica che comprende circa 250 milioni di persone»
I modi di produrre oltre che condizionare i luoghi innescano cambiamenti anche in termini di relazione e apprendimento, non crede?
Certamente. L’apprendimento è sempre legato ai modi di produrre. Apprendere in bottega era diverso che apprendere in seminario o all’Università borghese o alla Corte. In più è da prevedere che possano nascere nuovi nessi con la scuola e con la didattica in relazione ai Fab Lab e qui torniamo al punto introduttivo della nostra conversazione: la figura dell’artigiano riassume centralità e i Fab Lab permettono questo passaggio. Mi permetto inoltre di aggiungere un altro tema di sfondo: la dimensione di riferimento nazionale è in crisi, non si può più parlare di una produzione italiana diversa dalla produzione francese, occorre ragionare su una produzione italica che comprende pertanto circa 250 milioni di persone secondo le stime più accreditate. Nel mio ultimo libro Svegliamoci Italici parlo proprio di ciò tentando di dimostrare come la dimensione locale debba riposizionarsi nei confronti di quella globale. Facciamo un esempio: prendendo la macchina e percorrendo le nostre autostrade troviamo disseminati lungo centinaia di chilometri migliaia di capannoni che oggi con le nuove logiche di mercato sono «fuori dai giochi», o meglio, devono trovare un nuovo ruolo dentro una produzione legata ai Fab Lab.
MESSAGGIO PROMOZIONALE
Come legge il rapporto attuale tra cultura professionale italiana e scolarizzazione? Quali sviluppi ci attendono e quali sono auspicabili?
«Bisogna avere il coraggio di fissare delle finalità che rivalutano determinati valori della tradizione italiana, che sono differenti dai valori di altri paesi»
Il tema è importantissimo e chiama in causa scelte pubbliche di strategia per i prossimi anni del Paese. Anzitutto bisogna capire se c’è il coraggio di fissare delle finalità che rivalutano determinati valori della tradizione italiana, che sono differenti dai valori di altri paesi. In più occorre accompagnare al coraggio anche una certa dose di internazionalità. Per esempio come Fondazione Bassetti abbiamo organizzato lo scorso anno una spedizione a San Francisco, culla dell’artigianato e dell’innovazione tecnologica americana, al fine di portare i nostri artigiani in quella sede e creare una relazione nuova. La spedizione si intitolava Innovating with beauty. Pensi che, per tornare al tema dei capannoni abbandonati, in quelle zone alcuni ex stabilimenti industriali sono diventati i nuovi laboratori dei makers e attraverso questo ricondizionamento hanno generato opportunità impensabili. Nel corso di questa spedizione ci siamo recati alla Singularity University per cominciare a conoscere la loro innovazione e a mostrare la nostra estetica, perché tutti i nostri artigiani da Cellini (anche se si discute se fosse artista piuttosto che artigiano) a Maggiolini, a molti altri, hanno caratterizzato il loro lavoro sempre attraverso la componente estetica. Io credo inoltre che tutti gli Italici portino con sé il retaggio di questa tensione estetica e da qui dobbiamo partire con i nostri artigiani, rendendoli protagonisti di un mercato molto più ampio.
Proseguendo la riflessione, come si ricalibra la formazione e l’istruzione sulla rotta delle nuove tecnologie?
«Dove irrompe la stampante 3D la produzione passa in secondo piano e diventa importante la progettazione. Ma nella Buona Scuola di Renzi non c’è traccia di come gestirla»
I nuovi progetti nascono dalle possibilità dei nuovi strumenti. Chiaramente alcune attività rimangono le medesime, ad esempio negli atelier di alta moda si cuce come cuciva mia nonna, ma in un atelier dove irrompe la stampante 3D la produzione passa in secondo piano e diventa importante la progettazione. Credo che questo fatto ponga una distinzione generazionale per la quale se ai giovani occorre insegnare le modalità di progettazione, ai non più giovani occorre mostrare il loro valore di maestri nel giudizio rispetto all’opera e alla progettazione stessa. La medesima dinamica che accadeva in bottega con i maestri d’arte. E questo discorso va affrontato soprattutto a scuola, nella Buona Scuola di Renzi non ne ho visto traccia, ma è invece fondamentale. Se l’innovazione entra dal basso (oggi un ragazzo ha capacità tecnologiche che possono essere superiori a quelle di tutti i suoi insegnanti messi insieme), dall’alto occorre porre l’accento sull’orientamento di tale innovazione, sull’uso, sul senso. Così i maestri conosceranno le rotte di navigazione e gli studenti potranno servirsi di tutti i loro tools per finalizzare l’operato. La partita che nella scuola e nelle famiglie ci giochiamo è tutta qui: tra strumenti e fini.
Quali consigli avanza al sistema Istruzione, Formazione e Lavoro?
Difficile. Anzitutto credo che tra gli itinerari esistenti sia difficile trovare un percorso formativo che corrisponda a quanto detto sinora. Serve prima un riadattamento a opera del Miur alla società contemporanea. Io partirei ad aggiustare il sistema degli stage, anche perché ha ragione chi sostiene che in Germania gli stagisti non vanno in fabbrica a fare i finti operai, lì trovano qualcuno che insegna e che mostra loro come stringere il bullone sia significativo all’interno della filiera di progetto in fase di realizzazione. In aggiunta ritengo che la scuola debba fornire maggiori capacità esperienziali, non solo nozioni ma esperienze vive. In Italia, ad esempio, quel che più funziona – a mio parere – sono le maestre delle elementari che sono maestre di alfabeto e di conto ma che insegnano anche a stare a tavola. Risalendo la scala anagrafica vorrei anche sottolineare che dovremmo impostare i nostri percorsi a tutti i livelli sul metodo dell’induzione e non su quello della deduzione. La formazione su categorie concettuali tutte dedotte non ha futuro.
* direttore responsabile di Extra Moenia