Gaetano Bresci, l’anarchico che uccise il re

Gaetano Bresci, l’anarchico che uccise il re

29 luglio 1900. Milano è avvolta da un caldo torrido. Il centro della città, poco affollato per via della temperatura, porta testimonianza delle novità d’inizio secolo: l’elettricità, i tram, i grandi magazzini lungo corso Vittorio Emanuele. Secondo il Corriere della Sera, il termometro in corso Vittorio Emanuele segna 38,2 gradi: una temperatura che nel capoluogo lombardo non raggiungeva da cinquant’anni. «Quest’estate rimarrà memorabile», scrive il quotidiano, senza sapere ancora quanto fosse esatta la sua previsione.

Poco distante, a Monza, il re d’Italia Umberto I di Savoia sta presenziando a un saggio ginnico organizzato dalla società “Forti e Liberi” presso il campo sportivo in via Matteo da Campione. Il re si allontana dalla palestra poco dopo le 22, a bordo di una carrozza scoperta. A un tratto gli si avvicina un uomo che lo colpisce a morte con tre colpi di rivoltella: è Gaetano Bresci, anarchico toscano, non ancora trentunenne, di professione tessitore.

Pasi: «Umberto I era il Re Buono che va a Napoli per l’epidemia di colera, ma anche il Re Mitraglia, che usa le baionette contro il popolo»

Umberto I ha 56 anni, 4 mesi, 15 giorni e una sfilza di nomi: Ranieri Carlo Emanuele Giovanni Maria… «Era un uomo double face», racconta Paolo Pasi, giornalista del Tg3 e autore del libro Ho ucciso un principio (elèuthera 2014), biografia romanzata di Gaetano Bresci. «Umberto I era il Re Buono che va a Napoli per l’epidemia di colera e cura gli ammalati, ma anche il Re Mitraglia, che usa le baionette contro il popolo. Mi riferisco alla repressione dei Fasci siciliani, dei moti della Lunigiana e dei moti di Milano del 1898, la cosiddetta “protesta dello stomaco”, in cui il comandante Bava Beccaris guidò l’esercito, uccidendo un’ottantina di rivoltosi e ferendone 450. In cambio il re gli diede un’onorificenza e lo nominò senatore». Un sovrano controverso, dunque, il cui assassinio era stato tentato già due volte, nel 1878, da Giovanni Passannante, e nel 1897 da Pietro Acciarito. Entrambi ci avevano provato con il coltello ed entrambi erano finiti all’ergastolo in un manicomio criminale.

Nella sua fotografia più nota – che campeggia anche in copertina al libro di Pasi – Gaetano Bresci ci appare come un distinto signore dall’aspetto curato, con i baffi impomatati, le punte rivolte appena all’insù, giacca nera, camicia bianca e farfallino. Non a caso, fin da ragazzo, a Prato, era stato soprannominato il «paino», ovvero il damerino: un nomignolo che gli era sempre andato un po’ stretto.

Per la biografia del «paino», Paolo Pasi ha svolto uno scrupoloso lavoro di ricerca che lo ha portato sui luoghi della vicenda, a consultare i libri già scritti e i documenti d’archivio – in realtà piuttosto scarsi –, e che lo ha spinto infine a decidere di colmare gli omissis di testa propria, cercando di calarsi nella mente dell’anarchico di Prato e ipotizzandone i pensieri: dai preparativi dell’attentato, allo sparo, fino all’ostinato silenzio in sede processuale e, infine, durante il periodo triste e immobile della detenzione.

Gli spaccati della vita di Bresci antecedenti al regicidio sono ricostruiti attraverso procedimenti di analessi memoriale. Trascorre l’infanzia a Prato, dove la sua vita lavorativa inizia a soli undici anni, per quattordici ore al giorno, dal lunedì al sabato, con la domenica trascorsa alle scuole comunali per imparare a decorare la seta. La prima volta in galera è a 23 anni, con l’accusa di aver insultato una guardia. Il confino, invece, a 26, sull’isola di Lampedusa, per aver partecipato a scioperi e manifestazioni anarchiche. Tornato a casa, trova lavoro in Garfagnana e mette incinta una donna. Riconosce il figlio, si assicura che abbia di che vivere, e poi parte per gli Stati Uniti, in cerca di fortuna, e all’inizio del 1898 si trasferisce a Paterson, The Silk City, la città della seta che stava a una trentina di chilometri a nord di New York, nel New Jersey. Fabbriche su fabbriche e il fiume Passaic ai piedi delle colline: Paterson, all’arrivo di Bresci, accoglieva una comunità di circa cinquemila italiani. Gli anarchici erano almeno un migliaio, si radunavano in circoli, nei bar, leggevano e parlavano, perché «in America», scrive Pasi, «a parte la paga migliore, si poteva anche discutere senza il rischio di venire arrestati. Per questo aveva scelto Paterson. Sembrava che gli anarchici fossero tutti lì». E l’impressione non era tanto distante dalla realtà: per questo crocevia di ribellione passarono infatti Pietro Gori, Emma Goldman, Errico Malatesta, e tanti altri nomi noti e meno noti che Bresci ebbe modo di incontrare.

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MESSAGGIO PROMOZIONALE

Nel frattempo, a poche settimane dall’arrivo, Bresci conosce una giovane ricamatrice di origine irlandese di nome Sophie Knieland, che diventerà sua moglie. La loro luna di miele, però, è funestata dall’eco dei moti di Milano, la grande protesta popolare contro il caro vita, duramente repressa nel sangue.

Vendicare i morti di Milano: sembra essere questo il movente principale del gesto di Bresci.

Incominciò a organizzare il ritorno in Italia con largo anticipo, sfruttando i biglietti a prezzi scontati messi a disposizione per visitare l’Esposizione parigina. Ad amici e parenti raccontò che tornava a Prato per rivedere la famiglia e risolvere alcune questioni patrimoniali.

Mentre in America gli anarchici dibattevano, Gaetano pensò che era tempo di agire e quando si imbarcò per Le Havre, il 17 maggio 1900, aveva uno stipendio buono, un cottage a West Hoboken, una figlia di un anno – Madeline – e una moglie che ancora non sapeva di essere nuovamente incinta.

Passando per Parigi e Genova, dopo un soggiorno a Prato dai parenti, Bresci approda nella Milano stretta dall’afa, e da lì si sposta a Monza. Il 29 luglio, elegante come sempre, va in giro per la città con la macchina fotografica al collo (suo grande hobby, nonché pretesto perfetto per fare colpo sulle donne). Mangia ben cinque gelati al Caffè del Vapore, poi si mescola alla folla che assiste al passaggio del sovrano e alle 22:25 – o forse le 22:30 – gli spara nel petto tre colpi con la sua Harrington & Richardson calibro 38 a cinque colpi, acquistata a New York prima d’imbarcarsi.

Il primo colpo è per i morti di Milano, le «vittime pallide e sanguinanti del generale Bava Beccaris, per il potere che elargisce medaglie agli assassini e piombo agli sfruttati». Il secondo colpo è per i compagni di Paterson costretti all’esilio, «per gli operai e le operaie che la fame e le persecuzioni hanno allontanato dalle proprie case. Per tutti gli anarchici reclusi, confinati, accerchiati dal mare su un’isola prigione». Il terzo colpo è per la sua infanzia negata, la breve infanzia trascorsa a Prato, «avvilita dal lavoro ottimizzato che non dà tregua». Non si sa se ci fu un quarto colpo, la cronaca su questo punto non è chiara. In ogni caso tre furono sufficienti.

L’omicidio – immortalato in una celebre tavola del pittore Achille Beltrame per la Domenica del Corriere – avvenne sotto gli occhi delle molte persone presenti. Leggenda vuole che Bresci cercò di allontanarsi come se niente fosse, e si lasciò catturare senza opporre resistenza.

«Non ho inteso uccidere un uomo, ma un principio»

Una delle prime dichiarazioni che fece quando venne sottratto al linciaggio, arrestato e interrogato fu: «Ho agito da solo. L’ho fatto per vendicare le vittime pallide e sanguinanti di Milano… Non ho inteso uccidere un uomo, ma un principio». «Il principio», spiega Pasi «era quello della gerarchia e dell’autorità, che in quel periodo storico, in Italia, significava soprattutto reprimere con i fucili e con le armi le proteste sociali».

Nel libro di Pasi non mancano i riferimenti alla stampa del tempo; alle pubblicazioni libertarie – L’Aurora, La Questione Sociale e Il Risveglio –, che descrivono Bresci come un eroe, e ai giornali filogovernativi, che lo rappresentano come un pazzo o come il mero esecutore di un grande complotto.

Il processo si svolse con una rapidità insolita. Giudicato colpevole del delitto di regicidio, con sentenza del 29 agosto 1900, Gaetano Bresci fu condannato alla pena dell’ergastolo, di cui i primi sette anni da scontarsi in segregazione cellulare continua.

Ufficialmente si impiccò nella sua cella nel carcere di Santo Stefano il 22 maggio del 1901, ma non aveva con sé altro oggetto se non un fazzoletto, e secondo i medici che effettuarono l’autopsia, il corpo era in stato di decomposizione troppo avanzato per essere morto da sole 48 ore.

«La versione ufficiale è che sia morto in carcere, più probabile che sia stato riempito di botte dalle guardie», spiega Pasi: «Non c’era neanche la sua tomba, prima che l’anarchico e poeta del vino Luigi Veronelli la individuasse e mettesse una croce di legno nel giardino del carcere».

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