(Sarajevo, Srebrenica) – Il camion, ricoperto da un’enorme bandiera bosniaca, sosta davanti alla Presidenza di Bosnia ed Erzegovina. Lo circondano migliaia di persone che, in silenzio, depongono un fiore o scandiscono a bassa voce una preghiera. Sul mezzo, le bare che contengono i resti di decine di vittime che l’11 luglio verranno finalmente deposte nel grande memoriale costruito a Potočari, all’entrata di Srebrenica – città in cui vent’anni fa, l’11 luglio 1995, persero la vita 8.372 uomini e ragazzi bosgnacco-musulmani, massacrati dalle truppe serbo-bosniache del generale Ratko Mladić.
Sono 136, le persone che quest’anno verranno seppellite nel cimitero di Potočari con la dženaza, il grande funerale collettivo che ricorda l’eccidio. L’anno scorso erano 175. Occorre tempo perché, come spiegano alla Commissione internazionale per le persone scomparse (Icpm) che ha sede a Sarajevo, il processo di identificazione dei resti umani è estremamente complesso.
Per nascondere l’ampiezza del proprio crimine, i paramilitari serbi seppellirono infatti le vittime in fosse comuni che poi vennero occultate o spostate in altre località. Spesso i resti di un’unica persona vengono rinvenuti anche in tre o quattro posti differenti. Gli specialisti dell’Icmp ricevono i resti ed eseguono le difficili procedure d’identificazione, avvalendosi di analisi del Dna e rimanendo in contatto costante con le famiglie che, dopo vent’anni, aspettano ancora di sapere con certezza la sorte dei propri padri, figli e mariti. Per tutti coloro che hanno la fortuna di ricevere un nome, l’ultima tappa è il grande cimitero inaugurato nel 2003 e che ora ospita le spoglie di 6.241 delle vittime totali dell’eccidio. Diventeranno 6.377, dopo la cerimonia.
La guerra della memoria, la guerra delle risoluzioni
Non c’è dubbio che quella dell’11 luglio 2015 sia una commemorazione particolarmente sentita. Il ventennale del massacro ha richiamato migliaia di persone – tra i 50.000 e i 70.000, secondo gli organizzatori – e novanta delegazioni straniere, tra le quali anche l’Alto rappresentante per gli affari esteri dell’Unione Europea Federica Mogherini, la Presidentessa della Camera Laura Boldrini, il Ministro degli esteri Paolo Gentiloni. Tra i presenti anche l’ex Presidente americano Bill Clinton, che era a capo dell’amministrazione Usa in quel drammatico luglio 1995.
È un evento che la cittadinanza vive con sentimenti contrastanti. «L’11 luglio a Srebrenica è diventato una specie di circo», spiega sconfortato un giovane di origini bosgnacche. A un certo punto, i giornali locali avevano riportato la notizia che al memoriale si stava costruendo una loggia per i Vip desiderosi di partecipare alla cerimonia. L’informazione si è rivelata infondata ma in molti, qui, l’hanno trovata del tutto plausibile.
Il ragazzo, nato a Srebrenica, fu costretto a lasciare la città allo scoppio della guerra. Suo padre decise di rimanere e di lui non si sa più nulla: quasi sicuramente è morto, ma dall’Icpm non ne è mai arrivata conferma: «Quando sono andato via non avevo che pochi anni – racconta – poi ho deciso di ritornare. In fondo questa è casa mia, sono nato qui. L’arrivo è stato strano, ero con mia madre. Siamo arrivati alla stazione del bus e appena scesi io mi sono avviato sicuro verso casa. Mia mamma cercava di bloccarmi, “Fermati!” mi urlava, “eri troppo piccolo per ricordarti dove abitavamo!”. E invece sono arrivato dritto fino al cancello. Ero sicurissimo che questa fosse la mia vecchia casa. Lo sapevo. E non mi ero sbagliato».
Complice la ricorrenza del ventennale, il “circo” mediatico e politico attorno a Srebrenica, quest’anno, è iniziato parecchie settimane prima della commemorazione. A inizio giugno, la polizia svizzera ha arrestato a Berna l’ex comandante bosgnacco Naser Orić, che durante la guerra aveva guidato la difesa della città. Srebrenica, all’epoca, era stata dichiarata zona protetta sotto il controllo dell’Onu, dopo che nel suo territorio erano confluite migliaia di profughi bosgnacchi cacciati dai villaggi della valle della Drina, lì dove la pulizia etnica per mano delle truppe serbe era stata violentissima. Nei confronti di Orić la Serbia aveva spiccato nel 2014 un mandato di cattura internazionale, per crimini di guerra che egli avrebbe commesso nei confronti della popolazione serba della regione.
L’arresto – e la conseguente domanda di estradizione effettuata da Belgrado – è stato, secondo molti commentatori, totalmente pretestuoso, soprattutto per il fatto che la Convenzione europea prevede chiaramente che un cittadino ricercato debba essere estradato prioritariamente nel proprio paese di residenza – nel caso di Orić, la Bosnia Erzegovina, che è anche il paese dove sono avvenuti i crimini di cui egli sarebbe accusato. L’ex generale ha fatto ritorno in Bosnia Erzegovina non appena il Ministero di giustizia di Sarajevo ha presentato la richiesta per la sua estradizione, il 26 giugno. Nella capitale è stato accolto da eroe.
«L’11 luglio a Srebrenica è diventato una specie di circo»
Se le tempistiche dell’arresto di Orić sono apparse immediatamente sospette, è soprattutto perché esso seguiva di solo poche settimane l’annuncio che la Gran Bretagna avrebbe presentato al Consiglio di sicurezza dell’Onu una risoluzione in occasione dell’anniversario, in cui si parlava apertamente del “genocidio” di Srebrenica. Il voto è finalmente avvenuto mercoledì 8 luglio e la risoluzione, come noto, è stata bocciata per il veto russo. «Questa è una dichiarazione squisitamente politica che non contribuisce alla riconciliazione. Perché non approvare una risoluzione che commemori le vittime della guerra in Afghanistan o in Iraq? L’umanitarismo di Gran Bretagna e Stati Uniti è un umanitarismo a intermittenza», ha denunciato l’ambasciatore di Mosca all’Onu, Vitaly Churkin, nel prendere le difese dei Serbi, storicamente vicini alla Russia.
Sebbene il massacro di Srebrenica sia stato qualificato come un atto di genocidio dalla Corte dell’Onu già nel 2007, i Serbi non hanno mai accettato questa definizione. In parte perché con questa definizione si finirebbe per criminalizzare un popolo intero: «La Serbia accetta di commemorare Srebrenica, ma non di venire umiliata per quanto accaduto nel 1995», ha dichiarato recentemente il premier serbo, Aleksandar Vučić. In parte anche perché riconoscere di avere commesso un genocidio avrebbe probabilmente conseguenze politiche non secondarie per i Serbi di Bosnia Erzegovina.
Oggi, il Paese è diviso in due entità, una a maggioranza serba (la Republika Srpska) e una croato-musulmana (la Federacija). Srebrenica si trova, per l’appunto, sotto il controllo della prima: «Banja Luka (il centro amministrativo di Republika Srpska, ndr) non ci ama», sottolinea il sindaco della città, Čamil Duraković, «perché Srebrenica è oggi l’unica municipalità dell’entità ad avere un sindaco musulmano».
«Il problema principale di Srebrenica è che non si possono affrontare liberamente dei temi che in qualunque altro posto sarebbero assolutamente non controversi, e che riguardano la vita diretta dei cittadini»
Già nel 2007, la sentenza della corte di giustizia internazionale aveva provocato reazioni entusiaste da parte dei partiti identitari bosgnacchi, i quali avevano immediatamente chiesto la revisione dei confini tra le due unità amministrative. Anche per questo motivo, per Banja Luka e per Belgrado parlare di genocidio resta un tabù. La Serbia ha anzi proibito (ufficialmente per ragioni di sicurezza) tutte le manifestazioni che erano state annunciate, nella capitale serba, dagli attivisti locali proprio per commemorare Srebrenica: «Una decisione scandalosa», è stata la reazione di Miloš Teodorović, che era stato l’organizzatore della performance principale, prevista per l’11 luglio: 7.000 persone avrebbero dovuto distendersi davanti al Parlamento serbo per simboleggiare le vittime del massacro: «La volontà di proibire il nostro gesto è piuttosto eloquente nel farci capire come la Serbia non abbia ancora deciso di fare i conti col proprio passato». Una scelta che non ha comunque impedito al premier Vučić – di cui a Sarajevo si ricorda bene il passato come ministro al fianco di Slobodan Milošević – di partecipare alle commemorazioni, nonostante le proteste delle vittime.
Una ricostruzione mai terminata
Come ogni anno, le polemiche legate all’11 luglio rischiano di fare passare in secondo piano le necessità quotidiane di Srebrenica, che è stata vittima della guerra così come di una ricostruzione internazionale votata all’improvvisazione e, spesso, allo spreco. Milioni sono stati investiti nella città da parte dei governi stranieri, desiderosi di dimostrarsi vicini alla cittadinanza dopo avere assistito imbelli al massacro del 1995. Gli Olandesi, che all’epoca ritirarono i propri caschi blu consegnando migliaia di civili ai loro carnefici, sono oggi i primi finanziatori della città.
Dei 36.000 abitanti che la città aveva prima della guerra, quando era stato un fiorente centro termale, oggi ne sono rimasti stabilmente soltanto circa 5.000
Ma i risultati dell’impegno internazionale, per quanto imponente, stentano in verità a farsi vedere. Dei 36.000 abitanti che la città aveva prima della guerra, quando era stato un fiorente centro termale, oggi ne sono rimasti stabilmente soltanto circa 5.000. Per lungo tempo, nemmeno il sindaco risiedeva nel comune: venivano a lavorare in giornata e poi ritornavano nelle loro case, nella Federacija. Il primo a vivere davvero in città è Čamil, e per questo gode di un rispetto bipartisan, sia dei Serbi che dei Bosgnacchi. Ma le difficoltà restano: mancanza di lavoro, ricostruzione lenta (delle 6.000 case distrutte durante la guerra, solo la metà sono state ricostruite), poche prospettive. «Il problema principale di Srebrenica – dichiarava qualche tempo fa il sindaco al quotidiano sarajevese Oslobodjenje – è che non si possono affrontare liberamente dei temi che in qualunque altro posto di Bosnia Erzegovina sarebbero assolutamente non controversi, e che riguardano la vita diretta dei cittadini». Tutto, in questa piccola cittadina al confine nord orientale del paese, è complicato: se il suo passato è tragico, il futuro non è roseo di certo.