Draghi sta salvando l’Italia, ma se Renzi non taglia la spesa saranno guai

L’analisi

Con i mercati obbligazionari inondati dalla liquidità prodotta dal Quantitative Easing (Qe) di Mario Draghi, lo spread non rappresenta più un termometro fedele del rischio Italia. Rimane solo la Borsa a segnalare il grado di fiducia dei mercati nel nostro sistema economico. Lo abbiamo visto in occasione della crisi greca o del crollo di Shanghai. Lo spread non ha fatto quasi una piega, mentre la Borsa è salita sulle montagne russe. Possiamo allora utilizzare le oscillazioni di Borsa per stimare quale avrebbe potuto essere lo spread se non ci fosse stato il Qe? Anticipiamo subito la risposta: sì, e lo spread sarebbe circa pari a 350 punti base (bps), cioè 3,5%, tre volte tanto rispetto agli attuali 120 bps.

Se non ci fosse stato il Qe della Bce, lo spread sarebbe circa pari a 350 punti base, cioè tre volte tanto rispetto agli attuali 120 punti base

Calcolare lo spread in assenza di Qe non è solo un esercizio con valenze esclusivamente teoriche. Prima di parlare di “rivoluzione copernicana” nelle tasse, bisogna infatti capire cosa succederà tra un anno, a ottobre 2016 quando il Qe finirà. L’Italia ha già commesso ad inizio dello scorso decennio l’errore di buttare via il dividendo dell’euro. E abbiamo sfiorato il default nel 2011.

Sarebbe diabolico ripetere lo stesso errore, buttando via questa volta il dividendo del Qe di Mario Draghi. Anche perché con un debito che parte al 132% del Pil, questa volta le probabilità di cavarsela sarebbero infinitesimali. Pagare tassi doppi o tripli rispetto a quelli attuali sarebbe un colpo mortale per le finanze pubbliche italiane, se nel frattempo non siamo riusciti ad abbassare il debito a livelli di maggiore sicurezza. Uno spread a 350 bps per i Btp decennali rispetto all’attuale 120 bps potrebbe traslarsi sull’intero spettro di titoli di Stato in un innalzamento medio dello spread di 120 bps. Ipotizzando emissioni lorde annue per circa 270 miliardi di euro, questo aumento dello spread significherebbe un aggravamento della spesa per interessi di 3,2 miliardi di euro all’anno. Un aumento che si accumulerebbe anno dopo anno, fino a causare a regime un peggioramento di 26,4 miliardi all’anno.

Vediamo quindi come si arriva alla stima dei 350 bps per lo spread se non fossimo più in un regime ultra-espansivo di politica monetaria come l’attuale e se la percezione del rischio Italia fosse quella che vediamo riflessa nell’attuale volatilità della Borsa italiana.

Volatilità azionaria, spread governativi e politica monetaria

L’Italia ha già commesso ad inizio dello scorso decennio l’errore di buttare via il dividendo dell’euro. E abbiamo sfiorato il default nel 2011

Da inizio 2015 abbiamo assistito ad un aumento piuttosto marcato della volatilità sul mercato azionario italiano: la crisi greca e i forti storni registrati dalla Borsa cinese ad inizio luglio hanno impattato sui corsi dei titoli azionari italiani più di quanto sia successo su altri mercati azionari (sia europei che extra-europei, si veda grafico 1).

Grafico 1: Volatilità di breve periodo FSTE MIB a confronto con altri mercati

Di converso si è osservato che a fronte di questa impennata di volatilità sull’azionario, lo spread del Btp decennale sul Bund non si è mosso come invece sarebbe successo in altre situazioni di tensione. La tesi è quindi quella che, dopo il “Whathever it takes” di fine luglio 2012 e ancor più dopo l’annuncio della politica iper-espansiva che sarebbe sfociata nel Quantitative Easing (giugno 2014), le tensioni sui Paesi periferici (e in particolare sull’Italia) si scarichino sul mercato azionario e in misura solo marginale sugli spread (si veda grafico 2).

Grafico 2: Andamento spread Btp-BUND e volatitlità FTSE-MIB

Tale tesi è avvalorata dall’evidenza aneddotica raccolta sui mercati: nei giorni caldi pre e post referendum greco, piuttosto che andare corti di Btp gli operatori preferivano ridurre il rischio Italia agendo sull’azionario (e in particolare sui bancari). La Bce con il Qe è infatti presente sui mercati obbligazionari come una sorta di “compratore di ultima istanza”, ma non su quelli azionari. Andare “corti” di Btp avrebbe quindi esposto al rischio dell’intervento di segno opposto da parte della Bce.

Per verificare l’impatto dei diversi regimi di politica monetaria, si sono analizzate le correlazioni tra volatilità del mercato azionario italiano a breve termine[1] con lo spread Btp-Bund a 10 anni su tre diversi periodi.

Il primo parte dal 29 giugno 2011, giorno in cui il Parlamento greco approva un piano di austerità da 28 miliardi di euro, piano che suscita forti dubbi (poi fondati) sulla sua riuscita.  In quei giorni lo spread Btp-Bund sfonda la soglia dei 200 punti base e dopo poche settimane arriverà la famosa lettera della Bce al governo italiano. Sostanzialmente nell’estate del 2011 si concretizza il rischio di “euro break-up” e inizia la speculazione contro l’euro.

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MESSAGGIO PROMOZIONALE

Il secondo periodo invece parte dal “Whatever it takes” pronunciato da M. Draghi il 26 luglio 2012 e si estende fino al giugno 2014. In questo periodo il rischio di “euro break-up” scompare dall’orizzonte degli eventi e inizia a non essere più prezzato negli spread, che tuttavia riflettono il rischio di default del singolo emittente sovrano.

Il terzo periodo parte a giugno del 2014, dal momento in cui Mario Draghi annuncia che la Bce imboccherà un percorso di espansione monetaria non ortodosso sullo stile della Fed. Un percorso che culminerà con il varo del Qe nel marzo del 2015 e che si estenderà almeno fino all’autunno del 2016. Un danno collaterale del Qe è la distorsione del sistema dei prezzi delle attività finanziarie. Se una banca centrale, di fatto stampando virtualmente moneta, inizia a comprare in maniera massiccia titoli di Stato, è chiaro che i loro prezzi perdono in gran parte la capacità di segnalare quello che il mercato, cioè gli operatori privati, pensano della solvibilità dell’emittente sovrano.

Il mercato azionario è anch’esso influenzato dalla droga monetaria, ma in misura nettamente inferiore ai mercati obbligazionari. Anche perché le banche, che sono le beneficiarie della liquidità creata dalla Bce, reinvestono il grosso della liquidità in obbligazioni, governative e non, e sperabilmente in nuovi prestiti alle aziende e alle famiglie. Gli investimenti diretti azionari, anche in virtù dei nuovi regolamenti e dei coefficienti di assorbimento patrimoniale, sono modesti e “intermediati” da altre tipologie di operatori finanziari ed economici che smorzano almeno in parte il potere distorcente del Qe.   

L’analisi econometrica

Prima di parlare di “rivoluzione copernicana” nelle tasse, bisogna infatti capire cosa succederà tra un anno, a ottobre 2016 quando il Qe finirà

Il motivo per stimare i parametri della relazione tra volatilità del mercato azionario e il livello dello spread sulle obbligazioni governative è il seguente. La volatilità del mercato azionario determina il prezzo delle opzioni put, che sono una sorta di polizza assicurativa che gli operatori finanziari possono comperare per coprirsi dal rischio di un ribasso dei corsi. La volatilità è quindi non solo una misura statistica di variabilità ma anche di rischio finanziario. Per un sistema economico, il rischio maggiore è quello di default dello Stato sovrano. Se uno Stato fallisce, fallisce l’intero sistema bancario e sono veramente poche le aziende private che possono superare la crisi senza danni gravissimi. Il rischio di default sovrano si traduce quindi in un aumento della volatilità del mercato azionario e dello spread. 

Come risulta evidente dal grafico 3, nel primo periodo la correlazione tra volatilità del mercato azionario italiano e spread è piuttosto elevata (R-quadro pari a 0,39). La stima che si può avere è che per ogni punto di volatilità lo spread sale di 6,5 bps, partendo da uno “zoccolo” di 154 bps (intercetta).

Grafico 3: Correlazione tra volatilità FTSE MIB e spread Btp BUND maggio 2011 – luglio 2012

La qualità della regressione migliora significativamente nel secondo periodo (R-quadro passa a 0.61). Ad ogni punto di volatilità corrispondono circa 10 bps di spread, con un livello minimo di 45 bps.

Grafico 4: Correlazione tra volatilità FTSE MIB e spread Btp BUND  luglio 2012 – giugno 2014

Il grafico 5 dimostra in modo chiaro la validità della tesi di insensibilità dello spread alla volatilità di mercato in presenza di una politica monetaria non ortodossa. Infatti, nel terzo periodo la relazione tra volatilità e spread di fatto scompare.

Grafico 5: Correlazione tra volatilità FTSE MIB e spread Btp BUND giugno 2014 – luglio 2015

Conclusioni

Per capire quale possa essere il livello dello spread oggi se non fossimo in presenza del Qe di Draghi (cioè nel terzo periodo), dobbiamo decidere quale tra il primo e il secondo periodo della politica monetaria abbia più probabilità di ritornare una volta che il Qe finisca. A nostro parere, è abbastanza chiaro che nel futuro prevedibile l’impegno politico di tutti i partner europei sia di evitare a qualunque costo uno scenario di “euro break-up”. Anche la vicenda greca, nella sua paradossale evoluzione, ne è una testimonianza. È quindi plausibile ritenere che, una volta finito il Qe, si torni alla situazione del secondo periodo.  Cosa significa questo?  Se oggi fossimo senza Qe e quindi in una situazione simile a quella tra luglio 2012 e giugno 2014, una volatilità del Ftse Mib pari al 30% (come è in queste settimane) implicherebbe, in base ai parametri della regressione lineare sopra stimata, uno spread pari a circa 350 punti base.

[1] volatilità giornaliera annualizzata su periodo di 41 giorni feriali per l’indice FSTE MIB, fonte Bloomberg

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