«Chissà se dentro la circonvallazione c’è qualcuno che tifa Milan». Siamo sulla via per San Siro per una partita, in pratica un pellegrinaggio, una fresca sera di maggio di qualche era geologica fa. È l’anno in cui mi sono trasferito a Milano, da interista. Un collega, anche lui nerazzurro di fede e di pensiero, butta lì la battuta. Ridacchio, ma mica l’ho capita. Già, se non sei di Milano, certe cose le devi studiare. Sai che c’è la rivalità tra Inter e Milan, ma non sai come la vivono i milanesi.
E quando provi a capirlo, potresti scoprire che si tratta davvero di una stracittadina diversa dalle altre. Che i tifosi non si pestano, che in campo la rissa spesso è solo sfiorata. Che due fratelli possono fare i capitani delle due squadre. Che puoi andare allo stadio guardando la partita con la sciarpa del Milan in mezzo agli interisti, esultando pure evitando di tornare a casa a pezzi. In fondo scopri che le due squadre si coprono di sfottò, ma non si odiano. Che ogni derby pallonaro in giro per il mondo è storia a sé, ma quello di Milano davvero unico. Dalle origini fino a oggi.
Certo, anche a Milano la partita tra Milan e Inter ha rappresentato una frattura sociale, una lotta di classe. Nell’Italia del boom economico, di cui la città era uno dei fulcri, i tifosi locali amavano distinguersi tra Bauscia e Casciavitt, tra signori e “cacciaviti”. I primi erano gli interisti, di famiglia medio-borghese, che rivendicavano l’appartenenza a un club internazionale di nome e di fatto, fondato una sera di marzo del 1908 da una schiera di intellettuali e artisti svizzeri e italiani. Un gruppo di dissidenti usciti dal Milan, per creare un’altra squadra che non vietasse, come i rossoneri, l’ingresso di calciatori stranieri in rosa. «Questa notte splendida darà i colori al nostro stemma: il nero e l’azzurro sullo sfondo d’oro delle stelle. Si chiamerà Internazionale, perché noi siamo fratelli del mondo». Una vocazione che già vuole varcare i confini milanesi, che guarda al cielo, un manifesto da intellettuali, roba raffinata per chi, appunto, abita in centro («dentro la circonvallazione»). Il Milan, dal canto suo, resta legato alla città, nonostante il nome originario di Milan Cricket and Football club rimandi alle origini britanniche. Piero Pirelli che del club è stato presidente oltre che capitano dell’industria omonima, fa costruire l’impianto di San Siro nel 1926 e dove fino al 1948 gioca solo il Milan. Si consolida così l’idea di un club che si intreccia con il tessuto urbano, la città e la metà dell’anima operaia a cominciare dai Casciavitt che fanno il turno alla Pirelli, piuttosto che alle presse alla Magneti Marelli.
Ma il derby come lotta sociale ha perso via via colore nel tempo, diluito dall’importanza sempre più grande delle due squadre che vincendo in Italia e in Europa si allineavano alla Juventus come squadra tifata in tutto il Paese. Finiva il tempo in cui, negli anni Cinquanta e Sessanta, i tifosi della metà vittoriosa di Milano inscenavano cortei funebri per celebrare la morte dell’altra metà, quella sconfitta. Il Milan diventa la prima squadra italiana a vincere la Coppa dei Campioni nel 1963, seguita dalla doppia vittoria della “Grande Inter”. Non solo nelle scuole di Milano i ragazzini mandano a memoria Pascoli tanto quanto “Sarti Burgnich Facchetti”, così come già negli anni Cinquanta si giocava nei cortili con i calzettoni abbassati alla Sivori (o alla Hamrin, se eri fiorentino). A Roma la lotta di classe è e resta tra chi sta dentro le mura, dentro la città (i romani) e i “burini” laziali. A Torino gli operai immigrati dal sud si legano alla Juventus per tifo che è anche legame all’azienda Fiat: il fan granata si sente il “vero torinese”, oggi come allora.
A Milano la frattura sociale si scompone e resta relegata allo sfottò, alla lotta dura ma leale. Che trova un simbolo nella storia di due fratelli. Nel 1974, Franco e Beppe Baresi arrivano ai campi di allenamento dell’Inter per un provino con le giovanili. Franco va, Beppe resta. Franco diventerà capitano del Milan, Beppe dell’Inter. Pare che tifassero per le squadre opposte. Fratelli del mondo, fratelli in campo. «La settimana che precedeva il derby era qualcosa di particolare. In casa tra me e Beppe se ne parlava. Si viveva la vigilia con la giusta rivalità. Poi, per novanta minuti, ci sentivamo rivali davvero. Erano giorni carichi di tensione, la voglia di vincere era tanta. Entrambi sentivamo questa gara più delle altre. In campo non c’è comunque mai stato un episodio, tra me e lui, che potrei definire brutto. Infatti giocavamo in ruoli dove difficilmente ci trovavamo a contatto. L’entrata dura nel mondo del pallone è un fatto normale. Capitava a lui, è capitato pure a me. La voglia di uscire vincitore e di superare l’avversario, a volte, ti porta a un gioco un po’ maschio, è normale. Questa non è cattiveria. Quando si deve recuperare il pallone non si sta a pensare a certe raffinatezze, si cerca soprattutto di non colpire le gambe dell’avversario», spiegherà Franco in un’intervista al Corriere nel 1997.
Il derby della lotta dura ma leale è sopravvissuta anche ai clamorosi passaggi da una sponda all’altra. Ronaldo in rossonero ha fatto male, ma i milanisti non lo annovereranno mai tra i loro grandi attaccanti. Ibrahimovic ce l’ha nel sangue e nei piedi di cambiare sponda e maglia con facilità. Meazza lo fece a suo tempo, ma in rossonero era già a fine carriera. Di Helveg si ricorda davvero qualcuno? Ha fatto male il gol di Seedorf in rossonero alla l’altra metà, ma dietro non c’è tanto il cambio di maglia, quanto il sapore della beffa tecnica: sì, perché l’Inter ha voluto talmente bene al Milan da cedergli qualche anno prima Pirlo e appunto Seedorf in cambio di gente ben più scarsa. Roba da fare schizzare le orecchie a tremila metri se lo avesse fatto a qualunque squadra, figuriamoci al Milan. L’importante è che non fosse la Juve, il nemico comune di Inter e Milan, seppur con motivazioni e background diversi che, all’indomani della Cassazione che deposita la sentenza su Calciopoli, è meglio non rivangare. Meglio ricordare quando l’Inter tributò al Milan la passerella d’onore, al rientro dei rossoneri dall’ultimo Mondiale per club vinto. O gli episodi gravi, che in fondo si contano sulle dita di una mano. Anche quando Ronaldo fu espulso, ci si ricorda più di Gattuso che mimò con il gesto di volergli cavare gli occhi, senza poi nemmeno sfiorarlo.
Il derby tra Inter e Milan è sopravvissuto anche alla dura prova dell’Europa. Entrambi favorevoli al Milan e sfruttati dal nostro movimento per simboleggiare il potere calcistico italiano in Europa, ai bei tempi in cui un’italiana in finale non era un miracolo, figuriamoci due. Vero, piuttosto che perderlo, entrambe le tifoserie avrebbero dato via un braccio. Vero, Milano fece una brutta figura quando volarono i fumogeni in campo nel 2005: vennero dal settore interista come protesta contro Moratti e non contro il Milan. Di quel derby, l’ultimo in Europa, resta l’immagine di Materazzi appoggiato a Rui Costa, mentre assieme guardano la nube rossa che invade il campo.
Oggi, il derby di Milano è tornato a pulsare, o almeno ci prova, dopo un paio di stagioni sotto tono. Ci hanno pensato Kondogbia e Mihajlovic a rianimarlo. Magari sarà ancora una partita brutta, ma non si può dire che le contendenti non ci abbiano provato, stavolta. Alla presentazione dei rossoneri a Casa Milan, il tecnico milanista con un passato in nerazzurro (e da laziale con un passato nella Roma) ha saltato al coro “Chi non salta nerazzurro è”. I nerazzurri si lamentano su Twitter, così come qualche milanista alzò il sopracciglio alla Ancelotti quando Erick Thohir si presentò come nuovo presidente dicendo la stessa cosa, ma in versione in salsa milanista.
Proprio nel nuovo corso sta l’ultimo capitolo, la sgretolamento definitivo di chi ancora era ancorato alla divisione puramente cittadina del derby. Thohir è il primo presidente asiatico di un club italiano mentre Berlusconi, che già aveva dato una botta importante al concetto di Casciavitt (ve lo immaginate un orgoglio operaio per un presidente che arriva al campo in elicottero?), sta trattando per cedere una parte o tutta a Mr Bee. In entrambi i casi, ormai, Milano è solo una base di partenza: si parla di brand, nuovi mercati, Asia, Usa, merchandising. I due club si rispettano e fanno attività di co-marketing assieme con l’hashtag #DerbyMilano. Una delle due, sembra il Milan, se ne andrà da quel San Siro che una volta aveva tutto per sé. Ognuno a casa sua, a pochi chilometri l’una dall’altra. E ognuna dovrà ospitare l’altra almeno una volta l’anno, dopo anni di convivenza. In un’altra città, abituata ad avere uno stadio per ogni squadra, nessuno ci farebbe caso. A Milano no, sarà diverso. Sarà una nuova prova per il derby della lotta dura ma leale. Fratelli del mondo, in campo.