«Non penso che Grillo darà alcun vero addio alla creatura di cui è stato ispiratore». Marco Tarchi, politologo, ordinario di Scienza politica all’Università di Firenze, esperto di populismi, tratteggia il futuro del Movimento Cinque Stelle e ricorda che se i grillini sono così forti in questo momento è ancora colpa della classe politica italiana. «Gli avversari non hanno saputo cambiare pelle – malgrado i funambolismi retorici di Renzi – e, alla distanza, questo ha restituito al M5S il ruolo di più credibile sfidante dello status quo».
Grillo ha annunciato nelle scorse settimane di voler lasciare la politica. Ora si scopre che il Movimento Cinque Stelle sta cambiando pelle. Vogliono strutturarsi come un partito, utilizzando i Meetup quasi come le sezioni dei vecchi partiti politici. Cosa ne pensa?
Fin dall’indomani dell’inatteso risultato elettorale del 2013 ho pensato e scritto che la gestione di un così ampio successo sarebbe stata molto difficile e che, dati i criteri di selezione adottati per giungere alla candidature di molti dei parlamentari eletti, il rischio di dissidenze e scissioni era elevato. I fatti mi hanno dato ragione, ma del resto lo stesso Grillo, all’indomani del trionfale ingresso dei suoi in parlamento, aveva profetizzato che un 15% di deputati e senatori lo avrebbe abbandonato. La situazione che si è creata da due anni e mezzo in qua non poteva durare: i meetup non possono garantire né una linea politica unitaria sui molti temi che il M5S deve affrontare – ma che non aveva mai preso in considerazione nei primi anni di esistenza – né un contatto costante con la parte più ampia dell’elettorato pentastellato, che ha fatto la sua scelta seguendo i discorsi di Grillo sulle piazze e sui giornali, non frequentando gli incontri tenuti dai militanti. Quanto all’intenzione del leader-non leader di tornare ad occuparsi solo dei suoi spettacoli, rientra negli stili tipici di comportamento degli esponenti populisti, che ci tengono a far credere di essersi sporcati le mani con l’aborrita politica solo per rispondere al “grido di dolore” dei cittadini, ma di non vedere l’ora di poterne uscire.
In questo modo i Cinque Stelle rischiano di perdere il loro elettorato?
Non credo. Di per sé, l’organizzazione smorza la carica di spontaneità del movimentismo, ma non ne deve necessariamente tradire gli ideali e gli obiettivi. Le cose cambiano quando si entra in una fase di burocratizzazione, ma sta a quanti assumeranno ruoli di vertice e/o di coordinamento evitare che ciò avvenga e che il M5S assuma una forma di partito-movimento, come sta tentando di fare Podemos in Spagna.
I sondaggi a livello nazionale danno i grillini a un punto dal Partito Democratico. Come hanno fatto a resistere? A quasi due anni dalla legislatura c’è chi scommetteva sulla loro morte politica, soprattutto dopo le scissioni del gruppo parlamentare e i continui litigi interni.
Non ho mai condiviso questa visione pessimistica, perché mi rendevo conto che lo spettacolo che la classe politica italiana stava dando di sé era sufficiente a mantenere ben vivi i sentimenti di rigetto che avevano fatto la fortuna dei Cinque Stelle fra il 2012 e il 2014. Certo, l’evidente distanza tra le opinioni di Grillo e quelle dei gruppi parlamentari su molti temi cruciali ha rischiato di creare un forte smarrimento nell’elettorato di protesta e di farlo rifugiare nell’astensione, ma gli avversari non hanno saputo cambiare pelle – malgrado i funambolismi retorici di Renzi – e, alla distanza, questo ha restituito al M5S il ruolo di più credibile sfidante dello status quo.
Lei è un esperto di populismi in Italia. Spesso ha parlato di Salvini e Grillo. Pensa che il primo, alfiere ormai di una comunicazione più che mai aggressiva e populista, sia riuscito in questi anni a riconquistare parte di quei voti che la Lega Nord aveva perso, soprattutto nel Nord Italia?
Mi pare che i dati di sondaggio lo dimostrino nettamente. E in quest’opera di recupero Salvini è stato aiutato dai parlamentari grillini, che hanno esitato a seguire il loro “megafono” su temi scottanti come l’opposizione all’immigrazione. Il problema del segretario della Lega è riuscire ad assumere la leadership di uno schieramento più ampio del suo partito senza che ciò annacqui l’immagine “dura e pura” che tanto gli ha giovato nell’ultimo anno. Da questo punto di vista, l’alleanza con Berlusconi, screditato agli occhi di molti elettori leghisti, potrebbe finire con l’essere il classico abbraccio mortale.
Il Movimento Cinque Stelle è pronto a governare il Paese? Forse potrebbe iniziare con la conquista di Roma.
Chi non è di parte non può rispondere a una domanda come questa fino a quando non ci saranno elementi concreti di riscontro. Per il momento, il M5S si è assicurato la gestione solo di due città di un certo rilievo, Parma e Livorno; in entrambi i casi mi pare non stia dando quelle dimostrazioni di improvvisazione e incompetenza che da più parti si pronosticavano, ma Pizzarrotti e Nogarin, al di là delle differenze di posizione, hanno dovuto e tuttora devono affrontare molti problemi spinosi. Se il prossimo sindaco di Roma fosse un grillino, si potrebbe cominciare a giudicare sui fatti la capacità di governo del movimento, dato che si tratterebbe del banco di prova più impegnativo oggi ipotizzabile in Italia.
Salva qualcosa del Movimento Cinque Stelle di questi anni? C’è chi, anche negli altri schieramenti politici, definisce Luigi Di Maio come un possibile candidato premier. Ha un profilo più moderato rispetto a quello di Alessandro Di Battista.
Mi guardo bene dall’entrare nelle vicende interne del movimento, anche se concordo sulla diversità di profilo tra Di Maio e Di Battista. Il primo appare più “governativo”, il secondo più “battagliero”. Credo però che al M5S servano, al vertice, entrambe queste figure, perché una normalizzazione, per l’elettorato fin qui conquistato, sarebbe certamente più indigeribile di una gestione caratterizzata magari da qualche eccesso polemico sgradito ai circoli intellettuali ed economici elitari.
Quale sarà in futuro secondo lei il ruolo di Gianroberto Casaleggio? Conterà sempre di più nel partito dopo l’addio di Grillo?
Questa mi sembra davvero un’incognita, perché il peso dei fattori personali nelle vicende politiche è sempre molto difficile da calcolare. Non pensando che Grillo darà alcun vero addio alla creatura di cui è stato ispiratore, levatore, guida e anima, la domanda basilare è: il suo rapporto con Casaleggio continuerà ad essere così stretto e vincolante come attualmente appare? E Casaleggio in quale rapporto si porrà con i membri del Direttorio, o dell’organo che lo sostituirà, nel momento in cui costoro potranno contare su un’organizzazione vera e propria? Allo stato attuale delle cose, fare previsioni che non siano mere congetture è impossibile.
Chi è in questo momento il vero populista in Italia? Salvini, Grillo o Matteo Renzi? E Berlusconi può contare ancora qualcosa?
Grillo e Salvini esprimono schiettamente la mentalità che è alla base del populismo. Renzi, che ha alle spalle una classica formazione da dirigente di partito, usa il gergo e i modi populisti in funzione meramente strumentale. Lo sa fare in modo efficace, grazie alla dimestichezza con le regole del marketing, e con i suoi reiterati atteggiamenti di insofferenza verso la politica vecchio stile e il linguaggio da “uomo della strada” si sforza di pescare consenso nello stesso bacino elettorale dei rivali populisti. Berlusconi, in questo ambito, non ha più niente da dire. Appartiene al passato.