FumettiNicolas De Crécy: «Il fumetto? Finalmente è considerato una cosa per adulti»

È uno dei più visionari autori del fumetto francese, ha 25 anni di carriera alle spalle e ha visto il proprio mondo evolvere: «Fino a pochi anni fa era ancora considerato un divertimento per eterni adolescenti, ora finalmente qualcosa è cambiato»

Probabilmente in Italia lo conoscono in pochi, ma Nicolas De Crècy, nato nel 1966 ad Angoulême — città sacra per il fumetto francese, che ospita il più importante festival transaplino — è uno degli autori francesi più impressionanti e visionari della sua generazione, insieme a gente come Cyril Pedrosa, David B., Charb, Tignous e altri.

Eppure basta sfogliare Il celestiale Bibendum, un fumetto visionario, ambientato in una surrealissima e pazzesca New York sur Seine in cui si muovono personaggi fantastici uno dei suoi primi fumetti pubblicati in patria, appena pubblicato — per la prima volta — in Italia da Eris Edizioni, per capire che si sta parlando di un autore con la maiuscola.

Ma il mondo del fumetto è dannatamente complicato. E seppur sia considerato in patria e fuori uno dei più geniali fumettisti francesi, tanto che gli commissionano opere anche dal Giappone — e non è per niente facile, anzi — Nicolas De Crécy non vive solo di fumetto: «Il fumetto è una attività che mi prende il 40 per cento del tempo», ci ha raccontato via Skype in occasione del lancio del Celestiale Bibendum, «non vivo dei miei diritti d’autore come fumettista. Vivo delle vendite dei miei lavori in galleria, dei quadri, delle illustrazioni. E devo dire che mi va bene così, perché fare altro mi permette di finanziare il lavoro per i fumetti, ma anche di arricchirlo e di permetterlo. Forse se facessi solo fumetti avrei già smesso.

«Ho l’impressione che in questi ultimi 25 anni il fumetto, almeno in Francia, si sia guadagnato più rispetto»


Nicolas De Crécy

Qualche anno fa avevi dichiarato di voler smettere con il fumetto…
Sì, il fatto di non concentrarmi esclusivamente sul fumetto è sempre stata una cosa che mi ha arricchito, oltre a permettermi di guadagnarmi da vivere. Ed effettivamente qualche anno fa avevo deciso di smettere per un po’ proprio perché mi sentivo un po’ impoverito. Il fumetto, come tutte le arti grafiche, corre il rischio se non è ispirato di alimentarsi da solo, di diventare ripetitivo e di non riuscire a trovare strade nuove per rinnovarsi. Io appena ho sentito questo campanello di allarme ho smesso, e per cinque anni non ho fatto fumetti.

E poi cos’è successo?
Ho ricominciato è stato perché mi mancava l’aspetto narrativo, ma non solo. Oltre al fattore contenutistico — ovvero avere delle idee — quello che aspettavo era anche una sfida nuova a livello editoriale.

Ed è arrivata?
Sì, è arrivata alla grande: mi hanno proposto di disegnare un fumetto per il Giappone, ovvero La république du Catch (ancora inedito in Italia, n.d.R.). Quando me l’hanno proposto non potevo certo rifiutare. Un fumetto commissionato per il Giappone è una cosa che non capita a molti disegnatori non giapponesi. Capisci bene che è stata una cosa molto motivante, anche perché ho dovuto lavorare ai ritmi giapponesi. È stata un’esperienza bellissima. Ma anche tutto il lavoro che ho continuato a fare nel frattempo dal punto di vista della pittura e dell’illustrazione mi è servito moltissimo, mi ha fatto evolvere.

A proposito di pubblico, come è cambiato negli ultimi 25 anni il pubblico dei fumetti?
È diventato più adulto. Ho l’impressione che in questi ultimi 25 anni il fumetto, almeno in Francia, si sia guadagnato più rispetto, soprattutto negli ultimi dieci anni. Diciamo che è sempre meno considerato un divertimento per eterni adolescenti. Ma non è diventato adulto soltanto nel riconoscimento, anche dal punto di vista della produzione è cresciuto notevolmente, arrivando a proporre opere veramente mature.

Cosa è successo negli ultimi anni che ha causato questa evoluzione?
È un po’ ridicolo forse, ma c’è stato bisogno di pubblicare fumetti che si occupassero di “cose serie” — come la guerra, per esempio — per convincere molti che il fumetto è una cosa seria. Pensa a Mauss di Art Spiegelmann, Le photographe di Emmanuel Guibert o la serie di Persepolis di Marjane Satrapi, giusto per fare qualche esempio tra i primi che mi vengono in mente. A me sembra una cosa idiota, anche perché non credo ci sia bisogno di parlare di grandi eventi storici o di conflitti per parlare di cose universali, anche un’autobiografia lo può essere, o anche un racconto completamente fantastico. Anche la fantasia è una “cosa seria”.

«Negli ultimi anni la cultura dell’immagine si è ampliata tantissimo — pensa ai videogiochi, ma anche alla fotografia, etc… — e credo che sia proprio per questo che ci si è accorti che il fumetto ha una dimensione letteraria di scrittura molto importante»

Credi che abbia contato, almeno in parte, anche il cambio generazionale?
Sì, credo che questo cambiamento a cui abbiamo assistito nel pubblico sia anche un cambiamento generazionale. Lo si vede anche nell’importanza data al fumetto dalle istituzioni. Non so se vale in Italia, ma in Francia, per esempio, io ho lavorato per il Louvre, una cosa che anche solo quindici anni fa era impensabile. Certo, in Francia il fumetto ha acquisito reputazione già a partire da molto prima — pensa alla produzione incredibile degli anni Settanta — ma quello che voglio dire è che è stato solo negli ultimi anni che ci si è accorti che il fumetto è una vera e propria letteratura, una Letteratura a fumetti.

In che senso ha dimensione letteraria?
Negli ultimi anni la cultura dell’immagine si è ampliata tantissimo — pensa ai videogiochi, ma anche alla fotografia, etc… — e credo che sia proprio per questo che ci si è accorti che il fumetto ha una dimensione letteraria di scrittura molto importante. Anche i professori nelle scuole, che fino a quindici anni fa pensavano che il fumetto fosse per gli idioti, ora si sono accorti che invece sono interessanti perché, banalmente, non si “guardano” soltanto, ma si “leggono” anche. Ovvero hanno una dimensione scritta molto forte, una dimensione molto più letteraria di quanto credevano.

In Italia abbiamo avuto un paio di fumetti candidati al Premio Strega. In Francia quando vederemo un fumetto candidato al Goncourt?
Eh eh eh, non accadrà ancora per un bel po’ in Francia, temo.

Perché?
Perché la letteratura è ancora posta su un piedistallo ed è intoccabile, come il Premio Goncourt è il Premio Goncourt. Mai sarà permesso a un fumetto di partecipare. Il mondo della letteratura, almeno in Francia, non è ancora pronto, non è ancora sufficientemente maturo per accettare una cosa del genere, e non lo sarà ancora fino a quando sarà dominata da una generazione di intellettuali che, per la maggior parte, non conosce e non capisce il mondo del fumetto. Però dei passai avanti ci sono e anche grandi, e difatti sui giornali c’è sempre più spazio per recensioni e discorsi sui fumetti e il pubblico ho l’impressione che si stia allargando.

«Ci sarà una sorta di Spotify del fumetto che per 5 euro al mese vi farà leggere tutto. Credo che sia un passaggio inevitabile e che arriverà molto presto»


Nicolas De Crécy

Cosa ne pensi dell’uso del fumetto nel giornalismo?
Il graphic journalism è una tendenza che ha preso molto piede negli ultimi anni, ma personalmente penso che ne abbia preso un po’ troppo.

Ovvero?
Mi spiego: i fumetti che ora raggiungono più pubblico sono quelli di cui la stampa parla di più e sono quelli che parlano dei problemi dell’attualità, quelli “realistici”, quasi sempre quelli che fanno parte del fenomeno graphic journalism. E quindi l’impressione è quella che i lettori vogliano quasi solo quello, opere che parlino realisticamente dell’attualità, come per esempio il conflitto in Medioriente a fumetti. Ormai è diventato un comparto che prende il 50 per cento o quasi della produzione, quantomeno agli occhi del pubblico.

E perché non è una cosa positiva?
No, no, è una cosa buona, per carità, che dimostra quanto sia vivo il medium del fumetto e quanto possa avere mordente sui lettori, però viene sempre più difficile trovare spazio sulla stampa e quindi lettori per fare fumetti fantastici.

Cambiando argomento, che effetto avrà, sul lungo termine, il digitale, sia nella produzione che nella distribuzione?
Dal punto di vista della produzione il digitale è soltanto uno strumento, che per alcuni versi può dare più possibilità a qualcuno, ma a me personalmente non dà nulla. È invece molto influente sulla distribuzione, perché credo che si andrà nella direzione di un mondo editoriale in cui si stamperanno molti meno libri e in cui la gran parte delle pubblicazioni avverranno in digitale. Il che comporta qualcosa di buono — si risparmierà carta — ma anche qualcosa di cattivo, soprattutto per noi autori, perché sarà sempre più difficile farsi pagare i diritti d’autore. Temo che dovremmo dimenticarci la possibilità di guadagnare sul nostro lavoro di fumetti, anche perché temo che si andrà nella stessa direzione di quel che è successo già con la musica. Ci sarà una sorta di Spotify del fumetto che per 5 euro al mese vi farà leggere tutto. Credo che sia un passaggio inevitabile e che arriverà molto presto.

È un cambiamento radicale, un vero e proprio terremoto…
Sì, ma bisognerà adattarsi. Io vedo l’esempio di mio fratello Etienne, che è un DJ e fa musica elettronica, e che ormai non si guadagna più la vita vendendo dischi, ma facendo i live. Bisognerà trovare il modo di cavarsela anche per noi che disegniamo, non sarà facile. Probabilmente si creerà un sistema per cui i grandi fumettisti, quelli da best seller, ci vivranno, mentre tutti gli altri lo faranno come hobby, alternando il lavoro da fumettisti con quello da illustratori, grafici, pittori. E come ormai sai, è una cosa che a me capita già.