È indubbio che Mario Draghi sappia come parlare ai mercati. Non è una qualità trascurabile. Soprattutto, in questa nostra epoca, con economie inondate da uno tsunami di liquidità che rimane in circolo per i mercati finanziari e non riesce a stabilizzarsi e raggiungere l’economia reale. Mai come in questo periodo è importante che un banchiere centrale sappia cosa dire e quando dirlo. Basta una parola sbagliata, una leggera incoerenza nella linea di pensiero per determinare spostamenti massici, con conseguenze distruttive per le economie più fragili. Ne sanno qualcosa i mercati emergenti, in balia della incertezza sulle prossime mosse della Fed, la banca centrale statunitense. Il confronto tra la reazione dei mercati oggi e quanto accaduto lo scorso settembre in occasione della conferenza stampa di Janet Yellen, chairwoman della Fed, è impietoso.
Come Janet Yellen, Mario Draghi il 22 ottobre ha lasciato tutto invariato. Però, è stato coerente con le sue precedenti esternazioni. Ha fatto intendere che già dal prossimo incontro di dicembre la Bce potrebbe decidere di agire contro i rischi di deflazione. Lo aveva già anticipato prima della pausa estiva. Siccome nel corso dell’estate e in questo primo scampolo di autunno le prospettive di crescita si sono deteriorate, ha coerentemente accentuato i toni e fornito un quadro più preciso sul come e sul quando la Bce potrebbe agire. Senza comunque legarsi le mani su una soluzione predefinita. L’effetto sui mercati è stato immediato. Lo spread del Btp rispetto ai Bund si è abbassato sotto i 100 punti base e l’euro si è svalutato di quasi il 2% rispetto al dollaro. Le Borse hanno festeggiato. Prima quelle europee e poi anche quelle americane.
Mario Draghi ha lasciato tutto invariato. Però, è stato coerente con le sue precedenti esternazioni. L’effetto sui mercati è stato immediato. Lo spread del Btp rispetto ai Bund si è abbassato sotto i 100 punti base
Cosa farà quindi Draghi in occasione del prossimo meeting della Bce a dicembre? O meglio, cosa ha lasciato intendere che potrebbe fare?
Se lo scenario di crescita e inflazione non migliora, le alternative sul tavolo della Bce sono due. Portare i tassi d’interesse a cui remunera la liquidità ancora più in basso e/o aumentare l’estensione, temporale e volumetrica, del Quantitative Easing (Qe). Al momento, la maggioranza degli operatori di mercato si aspetta una intensificazione del Qe. Personalmente, sono un po’ scettico su questa alternativa e penso che la prima mossa sarà un abbassamento del tasso sui depositi. La motivazione è in parte tecnica e in parte “politica”.
Le alternative sul tavolo della Bce sono due. Portare i tassi d’interesse a cui remunera la liquidità ancora più in basso e/o aumentare l’estensione, temporale e volumetrica, del Quantitative Easing (Qe
Ricordiamo che adesso la Bce applica un tasso del -0,25% sulle somme che le banche commerciali lasciano oziose in deposito a Francoforte. Ed ogni mese, con il famoso Qe acquista circa 60 miliardi di euro di titoli obbligazionaridell’area euro. Alla fine del Qe, che al momento è previsto terminare per settembre 2016, il sistema delle banche centrali europee avrà acquistato 1.100 miliardi di titoli, in prevalenza governativi. Per avere un’idea della magnitudo del Qe, basti pensare che entro settembre 2016 la Banca d’Italia e la Bce avranno in portafoglio, rispettivamente, 130 mld e 20 mld di Btp. È una cifra equivalente quasi al 10% del PIL italiano, con cui si potrebbe finanziare per 3 anni un deficit pubblico pari al limite massimo (del 3% di PIL) consentito dal Trattato di Maastricht.
La maggioranza degli operatori di mercato si aspetta una intensificazione del Qe. Ma probabilmente prima mossa sarà un abbassamento del tasso sui depositi
Per le regole che governano adesso il Qe, una sua estensione presenta alcuni problemi. Le regole sono sostanzialmente due. La prima è che la Bce e le banche centrali dell’Eurozona non possono comprare titoli il cui rendimento a scadenza sia inferiore al tasso (negativo) a cui prendono a prestito. Andrebbero incontro a perdite certe e si configurerebbe in maniera inequivocabile (perlomeno più inequivocabile di quanto non sia già oggi) la fattispecie del finanziamento dei debiti pubblici, che è vietata dai Trattati. La seconda regola, imposta dalla Bundesbank per evitare una mutualizzazione implicita dei debiti, è che le banche centrali non possono essere costrette a comprare titoli di Stato di altri Paesi, come era successo ai tempi di Trichet. Il risultato è che la Banca d’Italia, per la propria quota di Qe, compra i Btp italiani, la Banca di Francia gli Oat francesi e la Bundesbank i Bund tedeschi.
Per le regole della Bce sul Quantitative easing, o cade il vincolo “nazionale” agli acquisti e le banche centrali europee vengono obbligate a comprare anche Btp, oppure è molto difficile pensare ad un raddoppio del Qe
Il problema è che molti Paesi europei non hanno un debito pubblico sufficientemente ampio per reggere già adesso l’impatto del Qe. In Germania e in molti altri Paesi del Nord Europa sulle scadenze medio-brevi i tassi d’interesse sono negativi. Le banche centrali dei Paesi con debito pubblico ridotto rischiano di detenere percentuali abnormi di singole emissioni, tant’è che in agosto Draghi aveva parlato della possibilità di derogare ai vincoli di concentrazione. E superate certe percentuali è difficile sostenere, di fronte ad un eventuale ricorso alla famigerata Corte di Karlsruhe, che la Bce non abbia violato il divieto alla monetizzazione del debito pubblico di uno o più Stati membri.
Tutto questo “tecnicismo” per dire che o cade il vincolo “nazionale” agli acquisti e le banche centrali europee vengono obbligate a comprare anche Btp, dove invece lo spazio c’è, oppure è molto difficile pensare ad un raddoppio del Qe. E qui però ci si scontra con la “politica”. Perché obbligare le banche centrali europee a comprare titoli di Stato di altri Paesi (nella misura poi che un Qe implicherebbe) equivale a imporre la mutualizzazione del debito pubblico in Europa.
Piuttosto che optare per un aumento marginale negli acquisti o una estensione di pochi mesi del Qe, per Mario Draghi potrebbe quindi essere più semplice ed efficace percorrere prima la strada della riduzione dei tassi di deposito. Si tratta di un terreno inesplorato, tant’è che fino a pochi mesi fa la Bce pensava di avere raggiunto a -0,25% il limite minimo. L’esperienza della Svizzera, dove il tasso è adesso a -0,75%, dimostra però che ci si può spingere più in basso.
Rispetto al Qe, l’effetto sarebbe meno forte sui tassi d’interesse e più accentuato sul cambio. Ma anche questo potrebbe fare gioco a Draghi. I tassi sono già ai minimi della storia dell’umanità e se ne stanno avvantaggiando soprattutto i Governi, sulle cui politiche di bilancio il governatore ha già espresso qualche preoccupazione. Mentre l’indebolimento del cambio ha beneficiato soprattutto l’economia reale e la parte più vivace e innovativa del sistema produttivo europeo.