Dopo l’incredibile serie di attentati che ha colpito Parigi il 14 novembre, in Europa – nelle opinioni pubbliche così come nelle istituzioni – ha iniziato a dilagare un senso di urgenza per rispondere alla violenza terrorista. Non solo con l’intelligence e le azioni di polizia, contro quel che resta della cellula islamica nel vecchio continente, ma con le armi. Visti gli apparenti legami diretti dei terroristi con il Califfato che occupa parte di Siria e Iraq, in molti chiedono che l’Occidente si faccia carico del compito di sradicare definitivamente lo Stato Islamico da tali territori. Il presidente francese Hollande, in primis, sta parlando in questi giorni di “guerra”, e non di contrasto al terrorismo. I caccia francesi hanno già scaricato una prima ondata di bombardamenti su Raqqa, la capitale siriana dell’Isis. Alcune autorevoli voci sono arrivate a ipotizzare l’attivazione dell’articolo 5 del trattato Nato, che obbligherebbe tutti gli Stati membri a unirsi alla Francia nella guerra – stavolta non nel senso di “lotta” o “contrasto”, ma nel senso di guerra convenzionale – al Califfato.
Queste richieste si fondano da una parte sul comprensibile sentimento di vendetta che scuote l’Europa, dall’altra sull’innegabile evidenza che qualsiasi strategia di prevenzione della minaccia terroristica nel medio periodo non può prescindere dall’eliminazione delle sue basi logistiche ed economiche. In questo caso, un territorio di dimensioni uguali a quelle della Francia a cavallo tra l’Iraq e la Siria, dove è possibile per l’Isis addestrare uomini, reperire risorse, coordinare piani di attacco e gestire il sistema di propaganda. Tuttavia, per quando sia amaro ammetterlo, le stragi di Parigi non hanno reso più facile o vicina la soluzione al problema dello Stato Islamico. Gli ostacoli, da mesi evidenziati dagli analisti e dagli esperti, rimangono immutati.
In Medio Oriente è infatti in corso un violento scontro tra Iran e Arabia Saudita, che sfrutta la fragilità del sistema regionale all’indomani delle Primavere arabe e si alimenta fomentando l’odio intra-religioso tra sunniti e sciiti. Tale scontro si esplicita in numerose “proxy war” tra Teheran e Riad: in Yemen, in Siria e in Iraq prevalentemente (ma anche in Libano e Bahrein, in parte). È nel caos generato da questa faida che ha attecchito ed è poi dilagato lo Stato Islamico, che ora trae vantaggio dalla situazione de facto per cui al fronte sunnita – guidato dall’Arabia Saudita – consentire la sconfitta del Califfato costerebbe la probabile perdita della Siria e dell’Iraq, che finirebbero definitivamente in mano al rivale iraniano.
L’Isis è poi stato avvantaggiato anche dalla linea estera della Turchia di Erdogan, prima disposta praticamente a tutto – compreso il sostegno più o meno diretto al fanatismo islamico – pur di abbattere Assad in Siria, e poi pronta a sfruttare l’Isis in funzione anti-curda (l’incubo peggiore di Ankara è infatti la nascita di un Kurdistan indipendente alle sue porte). Inoltre lo Stato Islamico ha attecchito in Libia dove, se è vero che non c’è uno scontro in corso tra sunniti e sciiti, la situazione di caos – fomentato, tra le altre cose, dalla rivalità tra Egitto (filo-militari laici) e Turchia (filo Fratellanza Musulmana) – l’ha resa un brodo di coltura ideale per il jihadismo. Non da ultimo bisogna considerare che alcuni “nemici” del Califfato non hanno esitato a sfruttarlo per i propri fini: Assad ha lasciato che l’Isis si rafforzasse per potersi poi presentare al mondo come l’unica alternativa all’estremismo jihadista, e ora anche Putin colpisce con maggior accanimento gli “altri” ribelli piuttosto che gli uomini in nero del Califfo Al Baghdadi per eliminare le alternative al suo alleato di Damasco.
Dunque un qualsiasi intervento militare occidentale volto a cancellare dalla mappa lo Stato Islamico non può prescindere dalla soluzione dell’enigma “cosa succede dopo”. Annientarlo e basta, nella situazione attuale, significherebbe rafforzare – e forse anche più – la dittatura di Assad (e la posizione della Russia nel Paese) e consegnare alla sfera di influenza iraniana tanto la Siria quanto l’Iraq. Probabilmente anche i curdi siriani potrebbero approfittarne per sancire la propria indipendenza nelle regioni del nord (la Rojava). L‘Arabia Saudita e la Turchia – nostri alleati – sarebbero furibondi (e ciò non rimarrebbe senza conseguenze geopolitiche, vista la faida sunniti-sciiti) e nelle popolazioni (in Siria la maggioranza è sunnita, e in Iraq è comunque una minoranza significativa) potrebbero rimanere sacche di malcontento tali da poter ricreare il problema nel giro di pochi anni.
Per questo qualsiasi azione bellica contro il Califfato dovrebbe essere preceduta da una “Yalta” per il Medio Oriente: una spartizione delle sfere di influenza tra Teheran e Riad, che ovviamente tenga conto delle varie questioni locali (ad esempio, il destino di Assad in Siria e l’eventuale transizione), che risolva i problemi collaterali (la questione curda, i rapporti della Turchia con i suoi vicini, la soluzione al caos in Libia, il ruolo dell’Egitto, la fine della guerra in Yemen etc.) e che abbia il patrocinio – e anche qualcosa di più – degli Stati Uniti, dell’Unione europea e della Russia. Purtroppo al momento un simile accordo complessivo è ritenuto dagli esperti praticamente impossibile. Le parti si siedono a un tavolo quando la vittoria o la sconfitta sono pressoché certe, e al momento questa non è la situazione. Tanto l’Iran quanto l’Arabia Saudita non sembrano disposti a rinunciaare a combattere per i loro interessi in nome della lotta al comune nemico “Stato Islamico”: Riad preferisce continuare a usarlo come argine agli sciiti, e Teheran come pretesto per disseminare il Medio Oriente di milizie religiose controllate dagli Ayatollah.
Non intervento militare occidentale volto a cancellare dalla mappa lo Stato Islamico non può prescindere dalla soluzione dell’enigma “cosa succede dopo”
Quali opzioni rimangono dunque per l’Occidente e la sua ambizione di sconfiggere militarmente il Califfato? Secondo diversi esperti di geopolitica, semplificando, ci sono due strade possibili. Nella prima l’Europa – che almeno in un primo momento avrà necessariamente bisogno degli Stati Uniti, che pure stanno progressivamente riducendo la loro presenza nell’area – decide di ingerire massicciamente (a livello economico, diplomatico e anche militare) nello scenario medio-orientale. Le potenze regionali vengono costrette dalla pressione occidentale a ritenere più vantaggioso accettare i compromessi decisi a un tavolo negoziale (e quindi in parte calati dall’alto) che non proseguire lo scontro.
Alcuni Stati attualmente esistenti potrebbero venire smembrati (Siria, Iraq, Libia, Yemen: in termini di rischi/opportunità è dibattuto se lasciare che sunniti, sciiti, alawiti e via dicendo si separino sia più pericoloso che mantenere lo status quo), con l’obiettivo di dare un nuovo assetto – più sostenibile – all’intero Medio Oriente. I rischi sarebbero enormi e le accuse di colonialismo dietro l’angolo. La strada alternativa è ritenere meno dannoso subire il fenomeno terroristico in Europa – inevitabile cascame del caos generato in Medio Oriente dalla guerra “mediata” tra Iran e Saud – e ridurne l’impatto, migliorando la prevenzione di intelligence e proseguendo le blande operazioni militari in corso all’estero. In tal caso si dovrà aspettare che la faida finisca, ne emerga un vincitore, gli attori regionali – vincitori e vinti – decidano (quasi) autonomamente le rispettive sfere di influenza e, a quel punto, che lo Stato Islamico venga stroncato non essendo più di alcuna utilità ai contendenti. In questo caso per anni, forse decenni, sporadici attentati in Europa sarebbero inevitabili, con i conseguenti rischi di destabilizzazione interna dei sistemi democratici-liberali europei.