“Esclusione sociale”, “segregazione nelle banlieue”, “ghettizzazione”: sono le parole che si sono lette in questi giorni del post attentati a Parigi e che cercano di spiegare per quali ragioni dei giovani di religione musulmana, a un certo punto, rimangano folgorati dalla jihad al punto di imbracciare le armi e compiere atti come quelli di venerdì 13 novembre. C’è stato anche chi, nelle prime ore confusionali, ha dato la colpa alla “follia” – parola che a ben vedere significa tutto e nulla e rimanda più che altro a un immaginario clinico, non sociale.
Le analisi degli osservatori e della stampa sembrano convergere tutte su unico punto: si tratta di giovani nati e cresciuti nelle periferie degradate, nei moderni ghetti delle nostre metropoli. Soltanto nella giornata di lunedì 16 novembre sono fioccati gli articoli come questo del Messaggero dal titolo “Parigi, nelle banlieue dove crescono i nuovi jihadisti”. Anche dopo la strage allo Charlie Hebdo di gennaio, Rainews proponeva la stessa analisi. Lo stesso Ministero della Giustizia italiano pubblica sul proprio sito una scheda sulla radicalizzazione, redatta da un gruppo franco-austriaco-tedesco, che tuttavia si concentra sul solo fenomeno dei carcerati.
Sia dalle istituzioni che dalla stampa viene proposta di fatto una semplice equazione: l’emarginazione di quelle vite farebbe da “molla” per chi si radicalizza, abbraccia l’integralismo religioso e infine, nella peggiore delle ipotesi, diventa un terrorista. Non è affatto detto che questa visione delle cose, intuitiva e deterministica, sia però così veritiera.
Stampa e istituzioni danno una visione semplicistica della radicalizzazione: sottolineano solo il disagio sociale che porta un giovane musulmano alla voglia di rivalsa. Ma “coltivare” l’integralismo è un’attività che necessità di studio della lingua e mezzi economici per viaggiare nei luoghi di culto e intessere relazioni
Essia è una studentessa di Scienze Politiche a Milano, una ragazza di seconda generazione di origine tunisina. Due anni fa ha passato l’estate in Tunisia per seguire dei corsi di arabo – assieme a giovani provenienti da tutta Europa, Francia inclusa – e racconta a Linkiesta che il conservatorismo religioso spesso prende piede anche fra persone di elevata estrazione sociale e molto istruite. «Una delle ragazze più dure nell’emettere giudizi, nei confronti di chi non si rifaceva ai dettami dell’Islam duro e puro, era una studentessa francese che aveva studiato presso una delle migliori facoltà di Scienze Politiche transalpine, aveva viaggiato e anche avuto un’esperienza lavorativa presso un ufficio politico parigino. Se la prese molto con una mia amica che aveva una cotta per un ragazzo mezzo arabo e mezzo europeo: diceva che non si poteva avere una relazione con un uomo che non è completamente musulmano».
In un caso Essia è stata colpita anche personalmente: «C’era questo ragazzo, figlio di un politico in esilio del partito islamista. Era ricco, colto e cresciuto in Francia. Dopo alcuni mesi dalla fine del corso di arabo mi scrisse per dirmi che se volevamo frequentarci – dando per scontata la mia disponibilità – dovevo cambiare il mio stile di vita. In quelle settimane lui aveva visto che uscivo con le amiche, che non portavo il velo e che a volte indossavo abiti occidentali».
«C’era questo ragazzo, figlio di un politico in esilio del partito islamista. Era ricco, colto e cresciuto in Francia. Mi disse che se volevo uscire con lui dovevo cambiare il mio stile di vita»
Oussama è un altro ragazzo di seconda generazione che ha vissuto anche in Francia. Lui racconta invece che descrivere le banlieue odierne con gli stessi toni de L’odio – il film capolavoro di Kassovitz – come troppo spesso fa la stampa per esigenze di spettacolarizzazione, lascia un po’ il tempo che trova: «La Francia ha immigrazione da cinquant’anni, le banlieue non sono quelle di trent’anni fa. Ci sono stati momenti in cui è arrivato il welfare state e ha migliorato la vita delle persone. Quei quartieri sono anche pieni di storie di gente che “ce l’ha fatta”». E aggiunge: «Coltivare l’integralismo è un’attività che necessita di accesso alla conoscenza, della possibilità di viaggiare per studiare la lingua e visitare i luoghi di culto oltre che intessere relazioni». Anche per Oussama, l’equazione povertà = potenziale fondamentalista, è troppo semplice.
«La Francia ha immigrazione da cinquant’anni, le banlieue non sono quelle di trent’anni fa. Raccontarle ancora oggi come ne L’Odio di Kassovitz è fuorviante»
Sono aneddoti di persone che hanno vissuto sulla propria pelle una parte della realtà che in questi giorni si cerca di spiegare, ma che trovano conferma anche in quelle poche ricerche di carattere scientifico sviluppate negli anni. Il professor Paolo Branca è un ricercatore in islamistica presso l’Università Cattolica di Milano, molto attivo anche sul fronte politico del dialogo con le comunità musulmane in Italia e spesso in polemica con le realtà più integraliste. Intervistato da Linkiesta chiarisce un punto: «I militanti sopratutto nei paesi islamici, ma anche in Occidente, sono persone che spesso hanno alle spalle studi superiori. Quasi sempre di carattere tecnico-scientifico, non umanistico. Si prestano a una visione meccanica della religione, rifiutano il conflitto delle interpretazioni e delle idee che invece è da secoli patrimonio dello stesso Islam».
Una visione che trova conferma anche in una ricerca anglosassone del 2010, condotta da Azeem Ibrahim dell’Istitute for Social Policy& Understanding Fellow. Uno dei dati più interessanti riguarda chi la violenza la compie: Azeem Ibrahim cita un collega ricercatore della Southern California University, che scrive: «Quasi il 90 per cento degli islamisti violenti non hanno ricevuto alcuna educazione religiosa in tenerà età. Nessuno degli attentatori dell’11 settembre o di Londra 2005 aveva ricevuto istruzione religiosa. Anzi avevano tutti un background diverso: medicina, ingegneria, economia».
«Sono quelli che gli americani chiamano “re-born” – spiega il professor Branca – persone fino a poco tempo prima non religiose o poco religiose, che ricevono una sorta di illuminazione e hanno un ritorno di fiamma: diventano degli scrupolosi, quasi ossessionati, fedeli. È un percorso che si è intensificato dopo la fine del colonialismo nel mondo arabo. Prima la religione era mediata, dalle moschee, dagli Imam che ne fornivano un senso generale. Ora si assiste a migliaia di giovani che leggono il Corano da soli – un testo dove le parole hanno decine di significati – e ne estrapolano un po’ quello che vogliono».
Poche ricerche ma quelle esistenti spiegano che chi abbraccia la violenza fondamentalista spesso non ha avuto alcuna educazione religiosa. Ha però alle spalle studi tecnico-scientifici. Gli attentatori dell’11/9 e di Londra 2005 avevano tutti studiato economia, ingegneria, informatica
E da ultimo: nel capitolo dedicato alle cause della radicalizzazione, il ricercatore britannico scrive che questa è spesso motivata da una “reazione morale” alla storia delle sofferenze dei musulmani in giro per il mondo; sofferenze che vengono spiegate alla luce delle politiche ostili occidentali. Magari è una visione semplicistica della storia o, se vogliamo, “vittimistica” ma che presuppone per forza una qualche forma di studio.
Studio sicuramente non accessibile a chi vive nella peggior periferia degradata e non ha completato nemmeno il percorso scolastico obbligatorio.