Venticinque anni fa, nel luglio del 1990, avvenne il cosiddetto “miracolo del Caucaso”: il cancelliere tedesco Helmut Kohl e il segretario generale del partito comunista sovietico Mikhail Gorbaciov si ritrovarono ad Arkhyz, piccolo villaggio in mezzo alle montagne della Circassia, e annunciarono l’accordo tra Germania occidentale e Urss sulla possibilità della riunificazione tedesca (nella Germania est le truppe russe sarebbero rimaste sino al 1994) e sull’entrata della Germania unita nella Nato.
L’accelerazione fu miracolosa perché Kohl tese a Gorbarciov una mano piena di miliardi di marchi tedeschi che il leader sovietico accettò di buon grado. Se la cifra esatta completa è rimasta ignota, il collaboratore di Kohl Horst Telcik sintetizzò successivamente nella retorica domanda: “Se Gorbaciov avesse detto: signor cancelliere, sono d’accordo su tutto, ma vi costa 50 o 80 miliardi, avremmo potuto dire di no?”.
A Gorbaciov la montagna di D-Mark serviva per rimanere in sella ed evitare che il Paese collassasse; poco più di un anno e mezzo dopo, alla fine del 1991, l’Unione sovietica non esisteva più e Boris Eltsin aveva già preso il suo posto. Da una parte la Germania unificata entrò subito nell’Alleanza Atlantica, dall’altro il patto di Varsavia si sfaldò e negli anni successivi cominciò la cooptazione dei Paesi dell’ex blocco sovietico nella Nato.
Il quadro è da oltre un decennio ben chiaro: la Russia di Putin percepisce l’allargamento della Nato come ostile e se in casi relativamente insignificanti come quello montenegrino alza solo la voce, quando si tratta di interessi più concreti non esita a reagire con forza
Di fronte alla Russia passiva, retta da un presidente ubriacone con cinque bypass e occupata più nel sopravvivere tra guerre in Cecenia e default economico che nel mantenere un ruolo sulla scacchiera geopolitica internazionale, l’Alleanza si allargò in breve tempo tra Polonia, Ungheria e Repubblica ceca (1999), poi furono completati durante la presidenza di Vladimir Putin i percorsi di Slovacchia, Slovenia, Bulgaria, Romania e delle tre repubbliche baltiche (Paesi entrati tra il 2004 e il 2009 e invitati nel 2002, quando con Mosca era ancora luna di miele ed era stato appena fondato il Consiglio Russia-Nato). Dopo la Croazia e l’Albania nel 2009 è ora giunta l’ora del Montenegro.
In due casi i tentativi pilotati dagli Usa di agganciare ex repubbliche sovietiche sono però falliti: Georgia e Ucraina, dove con le rivoluzioni colorate del 2003 e del 2004 erano arrivati al potere leader filoccidentali, sono rimaste fuori. Al vertice di Bucarest nel 2008, anno in cui Croazia e Albania furono ufficialmente invitate, doveva essere anche il turno delle due ex repubbliche sovietiche ad aderire al Map (Membership Action Plan), la questione fu fatta slittare per volere di Germania e Francia.
La guerra del 2008 in Caucaso e quella ancora in corso nel Donbass hanno seppellito (definitivamente?) le speranze di Tbilisi e Kiev. Il quadro è comunque da oltre un decennio ben chiaro: la Russia di Putin percepisce l’allargamento della Nato come ostile e se in casi relativamente insignificanti come quello montenegrino alza solo la voce, quando si tratta di interessi più concreti non esita a reagire con forza.
La Nato trainata da Washington persegue la propria agenda infischiandosene delle preoccupazioni russe e dell’equilibrio precario degli ultimi tempi sul tavolo mondiale
La Nato trainata da Washington persegue la propria agenda infischiandosene delle preoccupazioni russe e dell’equilibrio precario degli ultimi tempi sul tavolo mondiale, e poco importa inoltre se tra i passeggeri della nave atlantica non tutti sono in doppiopetto, ultimo della lista proprio il padre padrone a Pogdorica, l’ex presidente e ora primo ministro Milo Dukanovich.
In fondo, quasi ogni volta che un paese dell’est entra nella Nato, si tratta di una riedizione del “miracolo del Caucaso”. Al Cremlino, dove per quanto Vladimir Vladimirovich sia un fervente ortodosso, i miracoli vengono presi con le molle, quella che viene definita una strategia di accerchiamento partita con la fine della Guerra fredda è difficilmente digeribile. Le ultime parole del segretario di Stato Usa John Kerry (“La Nato è un’alleanza difensiva che esiste da 70 anni, un’alleanza difensiva con una base ampia, finalizzata a portare sicurezza. Non è una minaccia contro nessuno e non è focalizzata sulla Russia né su nessun altro”) fanno parte della dialettica diplomatica, ma hanno con la realtà odierna poco a che fare
Anche l’Alleanza atlantica però non è un monolite e come si è visto per Georgia e Ucraina c’è ancora qualcuno che mette il freno a strategie ancor più aggressive a stelle e strisce. Germania e Francia, indipendentemente dal colore dei governi e dei presidenti, hanno sempre cercato dopo il collasso dell’Urss un bilanciamento con Mosca e ancora adesso tra Ucraina e Siria sono Angela Merkel e Francois Hollande che stanno tentando di mantenere ogni canale aperto con il Cremlino, ben sapendo che senza la Russia i vari dossier sono destinati a rimanere irrisolti e pericolosi per la pace e la sicurezza continentali.
Putin da parte sua è ora alle prese con Erdogan e la Turchia, guarda caso membro della Nato e difeso a spada tratta dagli Usa nonostante le diverse ombre interne, sia quelle interne relative agli standard democratici del paese che quelle nel quadro più ampio del conflitto siriano: con i prossimi miracoli nei Balcani o altrove farà i conti in seguito.