Giovanni è un barbiere e da molti anni ha la passione degli investimenti. Tra un taglio e l’altro getta l’occhio sui listini. C’è un titolo che gli sta dando un po’ di inquietudine: il bond Venezuela al 2027. Ha un rendimento del 9,25%, che gli ricorda i suoi investimenti di gioventù. È quotato in dollari e questo lo rassicurava, prima che l’inflazione corresse così dannatamente. Così come lo rassicurava pensare che il Paese era seduto su un mare di petrolio, prima che si arrivasse ai 30 dollari al barile. Il fatto è che quando lui ha messo i suoi 30mila euro, un buon quarto dei risparmi di una vita, era in buona compagnia. E il consulente continuava a insistere sulla questione del petrolio. Ora il bond ha perso il 40% del valore, ma Giovanni pensa che le cose si aggiusteranno. Alla moglie dice che intanto si possono continuare a godere i loro 2.700 euro di rendimento all’anno. Poi, si vedrà.
Su un punto Giovanni ha ragione: non è affatto solo. «Tutti l’hanno consigliato, quel bond Venezuela al 2027, come quello al 2025. E tantissimi l’hanno preso», commenta un consulente finanziario indipendente di Milano che vuole rimanere anonimo. Ma il problema è un altro: «Anche oggi è uno dei titoli che i clienti mi chiedono di più. Quello e gli investimenti sulla lira turca e il dollaro australiano. Tutta roba ad alto rischio, richiesta da chi non la sa maneggiare. Perché c’è una cosa che ho capito, in questi anni: gli investitori sono avidi, dal primo all’ultimo. Non te lo puoi immaginare. Sono accecati dall’idea del guadagno. Il problema è che tutto questo è unito alla scarsa cultura finanziaria. Più sono ignoranti più sono avidi: chiedono solo il rendimento».
«C’è una cosa che ho capito, in questi anni: gli investitori sono tutti avidi, dal primo all’ultimo. Non te lo puoi immaginare. Sono accecati dall’idea del guadagno. Il problema è che tutto questo è unito alla scarsa cultura finanziaria. Più sono ignoranti più sono avidi: chiedono solo il rendimento».
Se si fa un giro di consulenti finanziari, qualcuno collega atteggiamenti del genere alla storia degli investimenti in Italia. «Per decenni l’investitore non qualificato medio in Italia ha comprato titoli di Stato, che erano valutati dalla cedola e non dal rischio emittente», commenta Paolo Balice, presidente dell’associazione Aiaf (analisti e consulenti finanziari). Oggi, aggiunge Massimo Scolari, presidente di un’altra associazione, Ascosim, molti degli investitori sono legati a quel mondo, perché l’età media è superiore ai 50 anni. «Sono vissuti in un mondo inflazionistico, dove c’era facilità ad avere rendimenti elevati con titoli di Stato. Se vogliamo sono stati malamente educati in primo luogo dallo Stato, sono stati abituati a pensare che il mondo della finanza sia quello in cui si ottengono alti rendimenti senza rischi particolari». Finita la pacchia, però, «le persone vanno alla ricerca rendimenti che assomigliano a quelli passati. Si avventurano in prodotti stravaganti. Può andare bene o andare male, come nel caso di Cirio e Parmalat».
«Gli investitori sono stati malamente educati in primo luogo dallo Stato. Sono stati abituati a pensare che il mondo della finanza sia quello in cui si ottengono alti rendimenti senza rischi particolari»
Altri consulenti, con una clientela più tradizionalista, dicono che il vento sta cambiando e che il “salvataggio” delle quattro banche popolari di fine 2015, da cui sono rimasti esclusi azionisti e obbligazionisti subordinati, è stato un punto di svolta. «Oggi c’è paura, vedo sempre più persone disposte a rendimenti prossimi allo zero pur di non perdere il capitale. Al solo nominare il nome dell’obbligazione bancaria,, alzano le mani e dicono di lasciare perdere», dice un consulente indipendente, Michelangelo Massara, fondatore di Pwa – Private Wealth Advisory.
Su due cose, invece, tutti i consulenti si trovano d’accordo: la mancanza di cultura finanziaria degli italiani è un fatto e gli intermediari non hanno fatto nulla per migliorare la situazione.
Terra incognita
Se vuole citare qualche numero, bisogna partire da quelli dell’Ocse, che hanno certificato come l’alfabetizzazione finanziaria degli studenti 15enni italiani sia la più bassa tra i 13 Paesi Ocse coinvolti nell’indagine e al penultimo posto se lo sguardo si allarga ad altri cinque Paesi partner dell’organizzazione. Peggio di noi ci sono solo gli studenti della Colombia. Il punto è che i livelli di competenze in lettura e in matematica non sono così disastrosi: manca però il più semplice accenno a come funzionano credito e investimenti. Con differenze territoriali importanti (tra Nord e Sud) e socio-economiche un po’ meno importanti, ne usciamo a pezzi, con solo il 2,1% degli studenti che raggiunge il livello più alto della scala Pisa, rispetto a una media Ocse del 9,7 per cento. Far entrare un po’ di concetti finanziari nelle scuole, al di là delle sperimentazioni del 2008 e del 2011, sarebbe un primo passo.
Ma il problema va affrontato ben oltre la scuola. «Le lezioni ai bambini sono un’operazione meritoria, ma è la configurazione del sistema e del rapporto tra intermediari e clienti ad avere ostacolato l’educazione della clientela», commenta Massimo Scolari. «La verità è che in banca ci sono persone interessate a vendere prodotti, non a trasferire informazioni e conoscenza alla clientela. Le persone sono state mantenute ignoranti da un sistema che dà incentivi ai bancari che vendevano i prodotti della banca. Si è voluto e si vuole mantenere l’asimmetria informativa. È come quando la Chiesa diceva la messa in latino, è chiaro che la gente rimaneva ignorante. Oggi si parla il linguaggio della finanza, che è ancora più oscuro del latino».
Un’altra metafora che viene spesso ricordata è quella che paragona un impiegato di banca a un commesso di un negozio. «È evidente che una commessa ti dirà che un vestito ti va bene. Le banche non sono fatte di delinquenti, ma di persone che devono venderti i prodotti» dice Raffaele Zenti, fondatore del team di consulenza Advise Only. La fiducia verso gli istituti di credito, aggiunge, oggi è eccessiva. «Per gli italiani la banca è un’istituzione di poco inferiore allo Stato. Serve una sana diffidenza».
«Le persone sono state mantenute ignoranti da un sistema che dà incentivi ai bancari che vendevano i prodotti della banca»
Mifid aggirata
Come serve un sano spirito critico quando si parla di Mifid (acronimo di Markets in Financial Instruments Directive). Gli investitori, per potere investire, devono compilare un documento nel quale dichiarano le competenze finanziarie e si assumono le responsabilità dei rischi che corrono. Uno strumento di tutela, europeo, che però ha mostrato segni di crepe se utilizzata male, come per Banca Etruria e Marche, ma non solo. «La Mifid è stata usata per mettere le banche al sicuro dalle contestazioni», dice il consulente finanziario anonimo già citato. «Negli arbitrati che si terranno, gli obbligazionisti delle quattro banche popolari dovranno dimostrare di essere stupidi e di non aver capito quello che firmavano».
I problemi che emergono con l’applicazione della Mifid, aggiunge Massara, sono diversi: «Purtroppo molte volte la Mifid non viene spiegata bene e il cliente viene spesso “indirizzato” nelle risposte con la finalità di risultare “appropriato” per la vendita di un determinato prodotto bancario – commentta Massara -. Sono successi addirittura casi in cui la Mifid era stata parzialmente precompilata dalla banca, e firmata dal cliente, per poter far comprare al cliente sue azioni o obbligazioni da mettere a garanzia a fronte di una erogazione di finanziamento».
Ma non solo: «in casi passati – aggiunge – è emerso che le banche, pur di poter vendere un determinato prodotto dichiarato “non conosciuto” dal cliente nella Mifid precedente, lo convocavano e glielo spiegavano a voce. A quel punto aggiornavano immediatamente il profilo Mifid e contestualmente vendevano il prodotto; tutte casistiche proibite dalla normativa». Per una condotta del genere la Consob nel 2011 sanzionò tre dirigenti di Bpm, con una multa di 175mila euro a testa, per un’obbligazione convertibile convertendo.
Di fronte a questo quadro, la Banca d’Italia è arrivata a proporre, con il suo direttore generale Salvatore Rossi, di vietare la vendita alla clientela retail delle obbligazioni subordinate, come si già si fa con i mini-bond e con altri strumenti complessi. «Possiamo anche fare questa nuova regola – commenta Scolari -. Ma la proposta di Bankitalia è stata sorprendente. Fa percepire che non ci sono norme esistenti che limitano i rischi degli investitori. In realtà ci sono e se ci fosse stata vigilanza e applicazioni delle leggi, i casi come quelli in cui sono coinvolti i risparmiatori delle quattro banche popolari sarebbero stati ridotti al minimo».