Similia similibus curentur. Fu il “motto” fatto proprio da Samuel Hahnemann alla fine del ‘700 per riassumere il significato del suo sistema medico, secondo cui “i simili devono essere curati con i simili”. È grazie a Hahnemann insomma se oggi, entrando in farmacia, possiamo scegliere tra farmaci classici (o allopatico, come li chiamò lui) e omeopatici. Sempre se di farmaco si può parlare, nel secondo caso, obietterebbero in molti. E sempre a lui, che ha inventato l’omeopatia, dobbiamo l’intenso dibattito che ancora oggi ruota intorno a questa controversa pratica della medicina alternativa.
Possiamo fidarci dell’omeopatia? E se la risposta è no, come si spiega allora che su molte persone – come l’amica che ce l’ha consigliata – funziona? E poi, ancora, potrebbero essere venduti come farmaci se non fossero tali?
Samuel Hannemann è l’inventore dell’omeopatia: il suo motto era “I simili devono essere curati con i simili”. A due secoli di distanza questa pratica medica è ancora avvolta da un alone di mistero e confusione: quasi tutti la confondono con la fitoterapia o credono che funzioni alla stregua dei vaccini
Ancora oggi l’omeopatia è avvolta da un alone di confusione e di mistero. La maggior parte delle persone la confonde con la fitoterapia, pratica basata sull’utilizzo di piante o estratti di piante per curare le malattie. Entrambe vengono spesso intese come terapie su base naturale. Altri ancora pensano che l’omeopatia funzioni alla stregua dei vaccini: idea sbagliata in entrambi i casi. Perché sia i rimedi fitoterapici sia i vaccini contengono una sostanza “attiva” in grado di curare i sintomi nel primo caso, o di stimolare una risposta immunitaria dell’organismo ad agenti esterni – come virus o batteri – nel secondo caso, in modo da difendersi e diventare resistenti a questi ultimi. Nel caso dell’omeopatia non accade niente di simile. All’interno dei rimedi omeopatici non c’è infatti traccia di nessuna sostanza “attiva”. Non solo, va anche detto che tolta l’etichetta, nessuno saprebbe riconoscere un rimedio da un altro dopo la diluizione (o dall’acqua o dal solvente utilizzato) perché non c’è modo per distinguerli dal punto di vista chimico-fisico.
«Per esempio, una diluizione con potenza 12D, oggi comunemente utilizzata in omeopatia, significa una diluizione di 1 a 10 praticata per 12 volte successive» spiega Vittorio Bertelè, farmacologo dell’Istituto Mario Negri di Milano, nel libro Acqua fresca? Tutto quello che bisogna sapere sull’omeopatia, edito da Sironi. «Questo significa che finiamo per avere una parte della tintura madre di partenza su 1012 parti di solvente: vale a dire una parte su mille miliardi. Sarebbe come mettere un millimetro cubo del preparato di partenza in mille metri cubi di acqua» spiega Bertelé, e continua: «Oppure un paio di microlitri (la milionesima frazione del litro) in una piscina olimpionica. Immaginiamoci con le diluizioni centesimali. Dal punto di vista quantitativo il limite critico si raggiunge alle potenze 24D e 12C, perché oltre, secondo le leggi della chimica, è statisticamente impossibile che nella diluizione sia ancora presente la sostanza originale disciolta».
Nei rimedi omeopatici non c’è traccia di alcuna sostanza attiva. «Sarebbe come mettere un paio di microlitri (la milionesima frazione del litro) dentro una piscina olimpionica»
Va da sé che all’interno dei preparati omeopatici non si trova poi molto, se non acqua o zucchero. Eppure secondo Hahnemann un effetto c’era, ed era dovuto al fenomeno della dinamizzazione (cioè nell’agitazione vigorosa delle provette di soluzione tra una diluizione e l’altra) e della memoria dell’acqua. Tutte fantasiose ipotesi mai dimostrate scientificamente. Insomma, in pratica, citando ancora Bertelè, gli omeopati direbbero che «non sappiamo come funzionano questi rimedi, ma questo non significa che non possano funzionare».
Nonostante queste premesse, infatti, sono in molti a sostenere che l’omeopatia funzioni, perché magari ha funzionato su di sé, il figlio o un conoscente. Ma chi lo ha stabilito? Nell’epoca della Evidence based medicine, cioè della moderna medicina basata sulle prove di efficacia, ogni farmaco ha dietro una lunga sperimentazione che parte dagli animali e arriva sugli esseri umani. Si effettuano studi dove vengono messi a confronto gruppi con caratteristiche quanto più simili possibili, a cui vengono somministrati o il farmaco che si deve testare, o un placebo o un farmaco già in uso e di comprovata efficacia. Non basta dire “su di me ha funzionato” per dimostrare una teoria scientifica o l’efficacia di un farmaco. Il sintomo potrebbe anche essere passato da solo o per altri motivi.
In tutti questi anni sono stati condotti numerosi studi per verificare l’efficacia dei farmaci omeopatici. Uno dei lavori più famosi è una meta analisi pubblicata nel 2005 su The Lancet, che ha preso in esame 110 studi clinici che a loro volta avevano confrontato allopatia con placebo e altrettanti studi che hanno confrontato omeopatia con placebo. In conclusione i ricercatori sono arrivati a sostenere l’ipotesi che “gli effetti clinici dell’omeopatia sono generici effetti placebo o di contesto”. E anche qui, sul presunto effetto placebo attribuito agli omeopatici, molto resta da verificare e la comunità scientifica non è totalmente d’accordo. Insomma secondo alcuni non funzionerebbero nemmeno con effetto placebo.
Per dimostrare una teoria scientifica non basta dire “su di me ha funzionato”. Viviamo nell’epoca della medicina basata su prove di efficacia: decine di studi dimostrano che l’omeopatia è inefficace in vari ambiti della medicina
«Altre prove sono arrivate in questi anni dalla Cochrane Collaboration, un’iniziativa internazionale no-profit che produce revisioni sistematiche della letteratura scientifica – continua Bertelè – la migliore metodologia oggi conosciuta per valutare l’evidenza in medicina. Sono state condotte diverse revisioni, aggiornate periodicamente, che documentano l’inefficacia dell’omeopatia in vari ambiti della medicina: dall’asma, all’osteoartrite, alla sindrome per deficit di attenzione (ADHD), fino alla demenza, l’induzione del parto, la riduzione degli effetti avversi della chemioterapia, e l’influenza».
Di recente infine anche uno studio australiano condotto dall’Australia’s National Health and Medical Research Council ha monitorato l’efficacia di differenti rimedi omeopatici in 68 diverse patologie per cui erano indicati arrivando a concludere che “non c’è alcuna evidenza che l’omeopatia sia efficace”.
Oggi in Italia le persone che si affidano ai rimedi omeopatici sono stimate tra i 5 e i 10 milioni, a seconda delle stime. Nel 2013, secondo i dati Istat, sono stati 4,9 milioni gli italiani che hanno fatto uso di medicine alternative, circa l’8,2% della popolazione. Di questi circa la metà si è rivolto all’omeopatia. «Secondo i dati dell’associazione Omeoimprese (che raccoglie i produttori di rimedi omeopatici nel nostro Paese), il fatturato sarebbe aumentato del 14% tra il 2008 e il 2014, per una spesa di 330 milioni nell’ultimo anno» spiega Lorenzo Moja ricercatore presso l’Università degli Studi di Milano oltre che uno degli autori del libro Acqua Fresca. «Mentre secondo i dati di IMS Health, tra il 2010 e il 2014 per i prodotti omeopatici c’è stato un calo di pezzi venduti di circa l’8 per cento. Il giro di affari generato dall’omeopatia è comunque ragguardevole: in Italia i ricavi complessivi di settore si attestino tra un minimo di 250 a un massimo di 400 milioni di euro».
In Italia, nel 2013, quasi 5 milioni di persone hanno fatto uso della medicina alternativa. Il volume d’affari generato dall’omeopatia viaggia fra i 250-400 milioni di euro
Molto ci sarebbe da dire anche sulla legislazione, che sia in Italia sia che in Europa mostra non poche contraddizioni. Il medicinale omeopatico, per esempio, viene venduto in farmacia alla stregua di un farmaco tradizionale. Ma può essere venduto solo se in confezione riporta la scritta “senza indicazioni terapeutiche approvate”. In altre parole un rimedio omeopatico è commerciabile nell’Unione europea solo a condizione che sia tanto diluito da risultare innocuo – senza considerare il rischio indiretto, dovuto al fatto che se si usa un farmaco omeopatico si corre il rischio di non curare la patologia.