Amare la propria squadra e, allo stesso modo, odiarne visceralmente un’altra. Se bastasse solo una frase per descrivere la base del tifo per il pallone, non ci saremmo certo presi la briga di aprire un file di word per riempirlo di parole digitali (si spera non a caso). Così come non staremmo qui a strapparci le vesti tutte le volte che dobbiamo sottolineare quanto certi personaggi che frequentano i nostri stadi siano brutti, sporchi e cattivi. Non esisterebbe un Osservatorio preposto, non esiterebbero poliziotti fuori dagli impianti, non esiterebbe l’indignazione per i soldi spesi ogni anno per tenere a bada quei facinorosi (45 milioni l’anno). E non esisterebbe in fondo quello che ancora oggi è uno dei grandi misteri gaudiosi del calcio: capire cosa spinge alcune persone ad amare la propria squadra in maniera viscerale. E a odiare di conseguenza a odiare con tutta l’anima la sua più acerrima avversaria.
Ma se certi sentimenti sono spiegabili con legami familiari (cresci in una famiglia juventina o interista) o riconducibili all’infanzia (il tuo compagno di banco parlava solo di Van Basten e allora sai…), il tifo può essere ricondotto alla sfera dell’appartenenza. E qui entrano in gioco alcune dinamiche, come quella religiosa. Perché se pensi all’odio/amore nel tifo, pensi a Rangers contro Celtic. Che non è solo un derby tra due squadre della stessa città. Ma uno scontro storico-religioso tradotto sul campo di calcio per un certo numero di gare all’anno ma anche per tutto il resto della settimana in cui non si gioca.
Ma se certi sentimenti sono spiegabili con legami familiari (cresci in una famiglia juventina o interista) o riconducibili all’infanzia (il tuo compagno di banco parlava solo di Van Basten e allora sai…), il tifo può essere ricondotto alla sfera dell’appartenenza.
Un episodio raccontato in un documentario spiega molto: «C’è questo tizio, a letto, un cattolico. Tifoso del Celtic. Sta morendo. La famiglia gli chiede quale sia il suo ultimo desiderio. E lui dice di voler diventare un proddy, un protestante. I suoi restano sorpresi, ma lo accontentano. Chiamano il prete, che arriva e lo converte al protestantesimo. E lo trasforma in un tifoso dei Rangers. La famiglia è ancora sotto choc e gli chiede perché lo ha fatto. E lui: perché se muoio, ci sarò un bastardo in meno di cui preoccuparsi». Già. Se sei un Gers, ovvero dei Rangers, tifi per una squadra dal retroterra protestante. Fai parte della maggioranza unionista scozzese, da cui discendono i colori sociali del club, bianco e azzurro (il Light Blue). Se sei del Celtic, molto probabilmente hai tra i tuoi avi un irlandese. E sei cattolico. Il resto della storia, che affonda le radici nell’invasione inglese della cattolica Irlanda nel Medioevo, l’abbiamo raccontata qui.
Ma ci sono altri elementi che possono determinare il tifo, dunque l’amore e l’odio per una squadra. Ed è la componente dell’appartenenza ad una determinata classe sociale. Il riferimento è un altro grande derby del calcio, quello di Milano tra Inter e Milan. Nell’Italia del boom economico, di cui la città era uno dei fulcri, i tifosi locali amavano distinguersi tra Bauscia e Casciavitt, tra signori e “cacciaviti”. I primi erano gli interisti, di famiglia medio-borghese, che rivendicavano l’appartenenza a un club internazionale di nome e di fatto, fondato una sera di marzo del 1908 da una schiera di intellettuali e artisti svizzeri e italiani. Una questione molto simile caratterizza altri due grandi derby come quelli di Roma e di Torino. Nella capitale la divisione sociale si è spesso basata tra romani veri (Quelli nati entro le mura) e burini, ovvero tra romanisti e laziali. A Torino, la componente sociale si è legata alle famiglie di operai della Fiat, magari spesso arrivati in Piemonte dal Sud, juventini per un misto di aziendalismo e riconoscenza per il lavoro ottenuto: ancora oggi, il tifoso granata si sente il “vero” torinese.
L’ormai famoso episodio che video coinvolto Genny ‘a carogna durnate la finale di Coppa Italia tra Napoli e Fiorentina (Getty)
Negli anni, però, certe fratture sociali hanno smesso di rivestire il proprio senso originario. Così come il movimento dei tifosi più appassionati, gli ultras, si sono evoluti come tutti i grandi movimenti. In Italia, le prime aggregazioni di tifosi che allo stadio decidono di distinguersi dagli altri e di sedersi al centro del settore della curva risalgono agli anni Sessanta, per dare seguito ai primi club di tifosi nati nel decennio precedente ma in maniera più innovativa, quasi ribelle, come imponeva l’aria rivoluzionaria del ’69. Spuntano così striscioni e bandiere e si sviluppa il nuovo tifo ultras italiano, che spesso si basa sul modello inglese: sciarpe alte a mostrare i colori della propria squadra, ma anche una certa tendenza a non sottrarsi alle scazzottate, quando serve. Nascono gruppi organizzati esistenti ancora oggi: il più famoso è il gruppo Tito Cucchiaroni, composto da tifosi della Sampdoria. Ma è negli anni Settanta che l’Italia conosce la violenza negli stadi. L’episodio più famoso di quegli anni resta la morte di Vincenzo Paparellil tifoso della Lazio centrato in testa da un razzo lanciato dalla Curva Sud dell’Olimpico, occupata dai tifosi della Roma. Ma è tutto il decennio ad essere pieno di episodi di violenza, a cominciare dai tifosi di Torino e Atalanta che sugli spalti si affrontarono a colpi di spranghe di ferro nel 1977, o l’accoltellamento in Lazio-Napoli dell’anno successivo. Sono anni in cui la divisione dello stadio non è ancora in settori per gli ospiti ed è più facile che amore e odio (ma soprattutto odio) esplodano.
Succede così che la trasferta, negli anni Ottanta, diventa una specie di caposaldo del mondo ultras: l’occasione è quella per regolare i conti con il nemico, l’obiettivo rubare striscioni e vessilli avversari come bottino di guerra. Nascono i treni dedicati apposta per gli ultras, di modo che la polizia possa tenerli meglio sott’occhio, ma questo non elimina il problema. Il tutto mentre l’Inghilterra si trova a fronteggiare il movimento hooligans, divenuto incontrollabile. I fatti dell’Heysel portano la Uefa ad escludere le squadre inglesi dalle coppe e lasciano la patata bollente nelle mani della Thatcher, che crede d risolvere il tutto richiudendo di fatto i tifosi in settori a loro dedicati negli stadi che somigliano a gabbie: l’effetto ottenuto è quello di una recrudescenza maggiore, perché se rinchiudi un cane arrabbiato, quello si incazza ancora di più. Da qui nasce una seconda tragedia come quella di Hillsborough, con i morti e il vergognoso tentativo di dare la colpa di alcuni sciacallaggi ai tifosi del Liverpool.
Succede così che la trasferta, negli anni Ottanta, diventa una specie di caposaldo del mondo ultras: l’occasione è quella per regolare i conti con il nemico, l’obiettivo rubare striscioni e vessilli avversari come bottino di guerra.
Ora in Premier gli stadi sono divenuti dei teatri, più silenziosi perché più cari: il tifoso più appassionato, quello che una volta andava in una End a sgolarsi, ora resta a guardarsi la partita al pub. Ma il movimento lotta ancora, perché allo stadio vuole esserci. Per amore, prima di tutto: a Liverpool hanno protestato per il caro-biglietti e il club li ha abbassati. In Italia gli stadi restano per lo più fatiscenti e molti tifosi protestano, per un giochetto ormai consolidato innescato per tenere i dirigenti sotto scacco: come quello di gettare i fumogeni in campo e far rifilare le multe alle società. In Italia l’amore per una squadra di calcio, intesa come tifo “sano”, si è diluito nel tempo. Nelle curve hanno fatto la propria comparsa soggetti legati alla malavita (Genny ‘a carogna, ma non solo) e il sistema si è ancora dimostrato in grado di arginare il problema, si veda la segmentazione delle curve dell’Olimpico.
Detta così, sembra che tutto sia perduto. Ma il tifo capace di esprimere amore per la propria squadra c’è ancora. Ed è quello dei supporters trust e degli aiuti economici messi in atto dai tifosi per aiutare la propria squadra a rinascere da un fallimento. Di esempi in Italia ce ne sono molti, a cominciare da Taranto e Ancona, veri e propri laboratori di impresa gestita in tutto o in parte dagli appassionati. Quelli che ci sono sempre. Quelli che amano.