«La scherma in fondo è uguale agli scacchi, solo che si gioca a 200 all’ora». A cinquanta passi dal Pantheon, negli appartamenti che furono del vescovo Diego de Valdes, camerlengo di Papa Borgia, la casa museo Musumeci Greco è insieme covo della memoria e palestra sportiva, governato dal discendente di questa famiglia di campioni e maestri d’armi: Renzo.
Le tenute bianche dei giovani atleti, a metà tra l’armatura e la divisa spaziale, dialogano dentro e fuori del tempo con le pareti ricoperte da un campionario d’armi: spade, spadini, guradè, bastoni animati, siet, archibugi, sciabole, katana, daghe, schiavone, partigiane… Renzo Musumeci Greco è direttore dell’Accademia, distribuita su tre sedi romane, e insegnante di scherma alla Scuola Nazionale di Cinema e al Teatro della Pergola di Firenze. Ci accompagna in questo viaggio a fil di spada che intreccia sport, storia patria e storia dello spettacolo.
«Tutto iniziò con Salvatore Greco dei Chiaramonte, farmacista di Mineo, Sicilia. Il primo maestro d’armi della famiglia. Fu camicia rossa di Garibaldi nella conquista dell’Isola, e poi lo seguì a Roma. Qui, proprio in queste stanze, nel 1878 aprì la sua scuola: viviamo a cavallo di tre secoli e quattro generazioni di maestri». Un eroe del Risorgimento, Salvatore, con tanto di busto al Pincio accanto al Nizzardo. Ma furono i suoi figli, Agesilao e Aurelio, a scrivere il nome Greco nella leggenda della scherma italiana.
Per cinquant’anni Agesilao fu il più grande campione mondiale: «Lui e Aurelio incarnarono al meglio la tecnica della scuola siculo-napoletana, basata sull’irruenza, sulla forza fisica, così diversa dalla scuola nordica, di derivazione francese, basato sul colpo sofisticato, anche perché centrata sul fioretto che è arma più leggera, mentre da noi vigevano spade e sciabole, che hanno un’impugnatura differente, che consente una presa più forte».
Gare leggendarie, la fondazione della Federazione italiana scherma, la celebrità: «Se pensa che quella Roma, dopo Porta Pia, non arrivava a 200 mila abitanti, Agesilao e Aurelio erano come i calciatori o i piloti di Formula Uno: veri e propri divi». Mondanità – la dannunziana euforia liberty e libertina della neonata capitale unitaria – e duelli: quelli “del primo sangue”, dove perdeva chi veniva ferito per primo. «Vietati ma sopportati, i duelli erano regola nel codice d’onore Ed erano strapagati i maestri che preparavano i duellanti, perché gli consentivano di non rimetterci troppo sangue, se non proprio la vita. Marinetti lodava il colpo segreto dei Greco». I duelli, segreti ma noti a tutti, accompagnarono la piccola mitologia mondana capitolina, a difesa di virtù femminili e blasoni familiari, almeno fino a dopo la Grande Guerra.
«Finì quell’epoca nel ’22, l’anno della presa del potere di Mussolini e del “duello del secolo”, come scrissero i giornali, cioè quello tra Aurelio e il maestro Candido Sassone, per stabilire chi fosse il più forte del mondo. Ancora, era la scuola del Sud contro la scuola del Nord. Non c’è bisogno di dire chi vinse». Un gruppo di quattro foto in fondo al corridoio, scattate dai fotoreporter dell’epoca, ricordano quella leggendaria vittoria al settimo assalto.
Finiti i duelli, cominciò un’altra avventura di spada: quella del cinema. La settima arte divenne centrale nella propaganda del fascismo, che v’investì risorse ingenti, con la fondazione di Cinecittà e della prima scuola di cinema, il Centro Sperimentale di Cinematografia. Molte pellicole, di ambientazione storica con personaggi guerreschi, avevano bisogno di un’adeguata preparazione atletica per gli attori: erano i film di eroi e guerrieri a firma magari di Blasetti e le fattezze di un Nazzari o un Cervi.
Enzo Musumeci Greco, nipote di Agesilao e Aurelio e padre di Renzo, inventò la professione di Maestro d’Armi nello spettacolo. «Tra i miei ricordi di bambino, c’è Charlton Heston, che qui si preparò per Ben-Hur: forse il più atletico di tutti gli attori, poderoso, con una prestanza ineguagliata. Si preparò con noi anche per impersonare El Cid. Ma papà raccontava sempre della sua amicizia con Orson Welles, a lungo in Italia per lavoro e per i suoi molti amori italiani: l’uomo più iroso che abbia mai conosciuto, diceva papà, che s’accendeva di una violenza furibonda, a volte c’era da temere che certe sue liti finissero col morto. I miei ricordi personali più cari sono invece per Vittorio Gassman, che mi piace ricordare per uno dei suoi ultimi spettacoli, “Bugie sincere”, sul leggendario attore Kean: Vittorio era ormai prigioniero della sua totale malinconia, si commuoveva a rivedersi in foto da giovane con l’armatura e la spada sguainata di Amleto. Forse però l’amicizia più forte è nata con Max Von Sydow: ancora ci scriviamo per Natale, gli piace conversare in italiano, che un po’ mastica, forse in ricordo del “Deserto dei Tartari”, il film di Zurlini per cui lo preparai e con cui combattei in scena».
Ma qual è la differenza tra il lavorare con un atleta e il lavorare con un attore? «Con un atleta devi operare sulla concentrazione, sulla coordinazione, sulla volontà, provando a sviluppare doti innate come l’eleganza e la padronanza del fisico. Ovviamente non va dimenticata la forza: mi ricordo sempre Agesilao, morto negli anni Sessanta, che a 97 anni faceva ancora gli esercizi e diceva che era vecchio solo da un paio d’anni, perché aveva perso il primo dente… Un attore invece, specie se esce dall’accademia, è più abituato alla disciplina, ha una duttilità già consapevole, per lui saper tirare è un arricchimento, perché altrimenti non potrebbe capire davvero personaggi come Amleto o Macbeth. Nella lirica poi è ancora un’altra cosa: Verdi e Wagner hanno scritto parti con duelli, ma in genere sono brevi perché i cantanti sono già provati dallo sforzo immenso della voce, e quindi queste parti più spettacolari sono affidate alle comparse, ma non per questo sono semplicemente decorative: ricordo anzi l’attenzione che a queste componenti era data da registi con cui ho avuto la fortuna di lavorare, come Franco Zeffirelli o Luca Ronconi, ma anche Luchino Visconti, che scelse il nostro simbolo dell’accademia, il puma con la spada, per “L’innocente” da d’Annunzio: grandi maestri, autorevoli, talvolta autoritari».
E sotto l’insegna del puma armato passano oggi gli allievi, giovani e no. Molti di loro arricchiscono la sfilza di vittorie agonistiche che si accumulano negli anni: per stare all’ultimo triennio, i primi posti ai campionati master fioretto e sciabola, soprattutto nella categoria femminile. «La scherma è uno di quegli sport in cui le donne sono certamente più forti. E sa perché? Perché le donne sono più avvelenate», dice ridendo Musumeci. «Devi essere avvelenato, estroso, fantasioso, sennò non puoi essere schermidore».
Chi è al top oggi? «Arianna Errigo, attualmente la numero uno. Ma voglio ricordare anche l’incredibile scuola di Jesi, nata sotto la stella del grande maestro Ezio Triccoli: grande tecnica, la splendida occasione di trovare talenti assoluti come una Vezzali o una Trillini. A quel punto scatta il motore di emulazione, che crea un movimento: vuoi essere come loro, spingerti sempre più in alto, nello spirito della competizione, dell’individualismo, dell’agonismo massimo che solo la scherma ha, insieme solo alla boxe. È adrenalina pura ma corretta, che cioè va incanalata nella tecnica, deve convergere nella punta, perché se sei forte ma sguaiato non vincerai mai. E parliamo di vittoria in senso puro, perché come guadagni la scherma non dà nulla, a meno che tu non vinca il Mondiale o le Olimpiadi. Purtroppo viviamo la cannibalizzazione degli sport più ricchi: ogni anno perdiamo ragazzi che vanno a giocare a pallone. Lo sport oggi è comandato dagli sponsor, dove c’è lo sponsor c’è la tv, dove c’è la tv c’è il pubblico. È una dinamica in cui si perdono gli autentici valori dello sport».
«Nel caso della scherma, poi, parliamo di una disciplina che rispecchia profondamente l’identità europea: la scherma si fa in Europa, la scherma è l’Europa, anche se stanno emergendo campioni fortissimi per esempio negli Usa, allenati però da maestri europei, per lo più dell’est. Il nostro impegno è da sempre la cura di questo carattere profondamente sportivo, che ha molto a che vedere con la costruzione e la pienezza della personalità della persona. In questo senso, tra le occasioni più belle che sono maturate in questi ultimi anni, c’è il rapporto con i nostri giovani allievi disabili: con alcuni stiamo lavorando per partecipare alle olimpiadi, grazie anche alla collaborazione con la Fondazione Terzo Pilastro e il Comitato italiano paralimpico guidato da Luca Pancalli».