Francesco Pannofino: il doppiaggio è un trucco, per questo agli italiani viene meglio che agli altri

Ha avuto la faccia di George Clooney e di Dan Aykroyd, di Tom Hanks e di Antonio Banderas. Pannofino è uno dei più grandi doppiatori italiani (anche se per noi è innanzitutto René Ferretti). Dice: «il doppiaggio è un lavoro da battaglia» all'insegna del "Dai! Dai! Dai!"

Il volto di Francesco Pannofino per molti è quello del regista René Ferretti, uno dei protagonisti della serie Boris, che ha quasi un decennio ed è già un cult. Ma nella sua carriera Pannofino ha avuto quasi un centinaio di volti: George Clooney, Denzel Washington, Kurt Russell, Dan Aykroyd, Michael Madsen, Philip Seymour Hoffman, Daniel Day-Lewis, Antonio Banderas, Mickey Rourke, Jean Claude Van Damme, Wesley Snipes per sceglierne alcuni. Ma ce ce sono almeno un’altra cinquantina tra film, serie tv e addirittura videogiochi. Pannofino è stato anche un cartone animato, almeno una trentina di volte.

Pannofino fa questo mestiere da quando aveva 19 anni, alla fine degli anni Settanta, e ora è uno dei più importanti doppiatori italiani. Ma la sua voce al telefono, malgrado quel che si potrebbe pensare, non è esattamente quella di quegli attori. No, non sembra di parlare con George Clonney. Né con Kurt Russel o Denzel Washington. Quando risponde al telefono da una delle tappe del tour per i teatri italiani con I suoceri albanesi, Pannofino non lavora. Capita soltanto poche volte, in qualche tono e in qualche espressione dell’attore, di pensare che dall’altra parte della linea ci sia René Ferretti.

«Fare il doppiatore è una specie di gioco, forse è per questo che i bambini imparano in fretta. In fondo è semplice», spiega, «Si fa il film a pezzetti. In piccole scene da massimo trenta secondi. Vedi come fa l’attore, e lo rifai. È bellissimo, ma è faticoso. Ti capita di fare turni di 9 ore, in piedi, al buio, a parlare continuamente. E poi è un lavoro di concentrazione, che richiede una tecnica molto fine per risultare naturale. Il doppiaggio è un lavoro da battaglia».

Come ti prepari?
In realtà, a meno che tu non stia lavorando a una grossa uscita, esci al mattino che non sai esattamente cosa dovrai affrontare. Soprattutto con le serie, non sai che succede al personaggio che dovrai affrontare. Non le vedi prima. Una volta si vedevano i film, soprattutto quelli importanti, in una proiezione apposta per i doppiatori che dovevano fare i protagonisti. Ma ormai non si usa più, un po’ per i costi, perché organizzare una proiezione costa, un po’ perché effettivamente, tranne pochi casi di film particolari, non serve vederli prima. Non credo che renda il risultato migliore.

La voce è un pezzo importante del lavoro dell’attore, non ti sei mai sentito un usurpatore?
No, non mi sento mai e poi mai un usurpatore. Perché mai dovrei? C’è un pubblico qua in Italia — che è decisamente la maggior parte — che vuole vedere i film doppiati. E finché c’è quel pubblico il nostro lavoro è l’unico che permette agli attori americani di parlare agli spettatori italiani. Io poi, personalmente, faccio sempre di tutto per mettermi al servizio dell’autore che doppio.

Che rapporto c’è tra un attore il suo doppiatore?
È difficile che ci si incontri, se non a qualche festival o a qualche prima. Qualcuno l’ho conosciuto, ma ci ho fatto giusto un paio di chiacchiere. Ho cenato una volta con Micheal Madsen quando è venuto per la presentazione di Kill Bill 2. In quel caso era lui che voleva conoscermi. Un altro che ho conosciuto è stato il francese Christian Clavier, quando ho doppiato il suo Napoleone mi aveva fatto i complimenti Mentre con George Clooney ci ho parlato solo al telefono.

Quale è stato il personaggio più complicato che hai doppiato?
Forrest Gump è stato parecchio complicato. Prima di tutto perché non avevo l’esperienza che ho adesso, ma soprattutto perché quel personaggio nella versione originale aveva due peculiarità forti: parlava con un handicap fisico e contemporaneamente con l’accento dell’Alabama. È difficile riportarlo in italiano, come lo fai? Non puoi scegliere un dialetto, te lo immagini Forrest Gump che parla in genovese?

E come avete fatto?
Prima di darmi quel ruolo mi fecero tre provini. Io decisi di puntare tutto sulla difficoltà fisica e funzionò. Non fu semplice, però credo che sia venuto bene. Altri lavori sempre molto impegnativi sono i cartoni animati.

Perché?
Perché i personaggi dei cartoni animati sono sempre sopra le righe. E poi perché a me in più fanno sempre fare la parte dei cattivi. Uno particolarmente impegnativo fu Mucca e Pollo, un cartone che va in onda sui canali per bambini e in cui io facevo il diavoletto Rosso Senzabraghe.

Come si sceglie una voce per una parte? E chi sceglie?
Sceglie il direttore del doppiaggio in concerto con il capo edizioni, che si occupa dell’edizione italiana del film e che lavora per le case di produzione, Warner, Paramount, Dreamworks e via dicendo. Ognuna di loro ha dei responsabili per le edizioni straniere che partecipano alla decisione sul doppiatore. Si tengono i provini e si sceglie la voce che funziona meglio, quella che ha il giusto timbro per l’attore che deve essere doppiato. Ultimamente sempre più spesso responsabili americani che supervisionano tutte le edizioni europee — ovvero quelle italiane, spagnole, francesi e tedesche — e che vengono a sentire direttamente, per tutelare la veridicità del film, la sua resa anche nelle altre lingue.

Cosa deve saper fare il buon doppiatore?
Deve essere il più fedele possibile all’originale. Non deve né migliorare, né peggiorare. Deve essergli fedele e ridare le stesse emozioni in italiano. Laddove ci siano modi di dire, accenti, inflessioni e slang, la cosa migliore è cercare il corrispettivo in italiano.

Ti sei mai sentito parlare in un’altra voce?
Eh eh, no, ma sarebbe paradossale. So che mi hanno doppiato in francese e, pensa un po’, in cinese, perché so per certo che un film che ho fatto è uscito in Cina. E devo dire che mi piacerebbe molto vedermi parlare cinese. Ma anche in francese, sono molto curioso.

In francese forse è più semplice, alla fine il labiale non è simile?
Guarda, io la lingua con cui mi trovo meglio è l’inglese. I francesi e gli spagnoli sono terrificanti, parlano velocissimo. È complicato da spiegare, ma l’inglese, pur essendo più sintetico, mi risulta più facile, più “umano” da interpretare.

Ma come ti suonerebbe vederti nel ruolo di René Ferretti che dice “C’mon! C’mon! C’mon!”?
Ah ah ah, no, non suona, il “Dai! Dai! Dai!” è perfetto. Lo senti anche tu… “C’mon! C’mon! C’mon!”… no, è troppo lungo. Comunque credo che saprebbero trovare un modo equivalente. Io non saprei aiutarli però.

Come è stato lavorare all’ultimo film di Tarantino? Tu hai doppiato Kurt Russell giusto?
Sì, ma sai che non l’ho ancora visto al cinema? Sono in giro da tre mesi con il teatro e non ho ancora avuto tempo di andare a vederlo, ma mi piacerebbe riuscire ad andare. L’ho doppiato tutto, ma so solo le scene in c’è Kurt Russell. So ovviamente come finisce, ma doppiare un film non significa vederlo. Anche perché noi lavoriamo con delle copie che non ti dico, sembrano i film dei fratelli Lumière. Copie antipirateria in bianco e nero, sfocate, piene di cifre, numeri, loghi, nomi.

In Italia si dice sempre che abbiamo la migliore scuola di doppiaggio del mondo. È vero? Perché siamo così bravi in questo campo?
Il doppiaggio in fondo è un trucco cinematografico: deve sembrare che parli l’attore. e noi italiani siamo bravi nei trucchi, siamo bravi ad adattarci. È solo un’impressione, ma mi sembra che a noi venga meglio. Ho visto film doppiati in francese o spagnolo, e mi sembra sempre che loro non siano lì, dentro la bocca del personaggio. E noi questa cosa la sappiamo fare bene. E poi abbiamo una grande scuola, e in tutti i mestieri è un fattore importante. Da dopo la seconda guerra mondiale, da quando hanno sdoganato dopo il fascismo i film americani, in Italia il doppiaggio è entrato a far parte dell’industria del cinema, si è costruita una tradizione.

Cosa rispondi a chi sostiene che i film vadano sempre visti in lingua originale?
Capisco il loro punto di vista, ma se fossi in loro non mi accanirei più di tanto. Se sanno l’inglese se li vedano in originale, come succede in tutti gli altri paesi. Ci sono le sale che proiettano i film in versione originale e quelle che li proiettano doppiati. A quel punto è lo spettatore che sceglie. Il cinema è un negozio, e io sono il consumatore. Devo poter trovare tutto. Alla fine si tratta di cinema, il film devi godertelo. E se a qualcuno serve il doppiaggio non c’è niente di male, non succede nulla. L’importante è godersi il film. Io sono d’accordo che il doppiaggio appiattisca, non lo nego, ma è una necessità. È come per i libri. Sono sicuro che leggere Tolstoj o Dostoevskij in russo è un’altra cosa rispetto a leggerli in traduzione. Ma io il russo non lo so, che faccio, non leggo i russi? Per leggere Hemingway in inglese mi ci vogliono tre anni, come faccio? Io i film li guardo in italiano, quasi sempre. So parlare un po’ in inglese, ma non ho una padronanza tale da potermi permettere la visione di un film. Perché alla prima cosa che non capisco mi perdo e non capisco più niente.

Perché ci sono così poche sale dedicate alle versioni originali?
Purtroppo in Italia parliamo poco l’inglese e i film in lingua originale li possono fruire ancora in pochi. I cinema non li propongono perché la richiesta è ancora bassa e non riempirebbero le sale, altrimenti ne avrebbero già aperti un sacco.Io comunque preferisco il doppiaggio al sottotitolo, perché il sottotitolo distrae e sporca l’immagine, e l’immagine resta la regina dell’arte cinematografica.

In un articolo di qualche anno fa si parlava di un settore in difficoltà, stretto tra la quantità di lavoro sempre più alta e i budget sempre più bassi. È ancora vero?
Sì, certo. È vero che esiste questo paradosso. Il lavoro è aumentato molto e sono aumentati i doppiatori. Io ora che non frequento così tanto le sale di doppiaggio, vedo sempre più spesso facce nuove. E se il lavoro aumenta e i soldi che girano son sempre gli stessi, è naturale che si attivi questa dinamica. Ma in questo settore non c’è mai stato un periodo di “vacche grasse”, è sempre stato un lavoro da sgobboni, che per arrivare ad avere un reddito soddisfacente devi farti un culo così. Non ti regala niente nessuno. Devi fare tre turni al giorno per sette giorni, e arrivi alla fine della settimana che sei distrutto. Come tutti i lavori.

Questa devo fartela per forza: uscirà mai una quarta stagione di Boris?
Guarda, me la fanno tutti questa domanda, e me la vorrei fare anch’io. Anche perché non è che noi ci sentiamo tutti i giorni, affrontare l’argomento con gli autori è delicato, più glielo dici e meno lo fanno. Io mi vedo soprattutto con Ciarrapico, ma non glielo chiedo nemmeno, tanto se si fa, si fa. Dipende da loro, la devono scrivere.

A te piacerebbe?
Sì, me la sparerei un’altra stagione di Boris. Mi diverto un sacco, è un personaggio che mi piace fare. Ce l’ho, ce l’ho in pugno, e poi loro lo scrivono benissimo. È faticoso, sei sul set, però è bellissimo.

Si vede che ti diverti un sacco…
Sì, mi diverto proprio. Poi, sai, è questo che faccio. Cerco sempre di divertirmi quando lavoro. Più ti diverti più viene bene. Però lo devo dire, René è l’imperatore dei miei personaggi.

Sono passati quasi dieci anni, l’Italia è ancora lo stesso paese che prendevate per il culo in Boris?
Forse è anche peggio. Le ingiustizie ci sono ancora. E quando ci sono le ingiustizie è giusto che le si racconti, anche quando sono nel mondo del cinema. L’universo umano di Boris può sembrare esagerato, ma ti assicuro che non lo è. Le situazioni che noi raccontiamo in Boris sono vere, magari non succedono una dietro l’altra. Ma succedono, soprattutto nel mondo del cinema e della televisione. A volte te lo chiedi veramente il Ma dove sono capitato? che si chiede Alessandro Tiberi in Boris.

Si potrebbe fare di tanti lavori un Boris, sai?
Ma certo! E infatti Boris ha successo non soltanto tra gli addetti ai lavori del mondo dello spettacolo. Ha successo nelle banche, nei commissariati, nelle redazioni, negli uffici, dovunque c’è una gerarchia. C’è lo schiavo, c’è il capo stronzo, c’è quello che non si vede mai, c’è quello che media, il figlio di puttana. E c’è l’umorismo. Quella di Boris è la miglior metafora di questo paese.

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