«Recitare è una maledizione: pone continuamente di fronte alla propria impotenza e miseria». Le parole, che a teatro fanno il luogo, l’azione e la comunione tra spettatori e attori, per Gabriele Lavia sono tanto necessarie e imprescindibili, quanto insufficienti. Irreparabilmente insufficienti. Lavia è uno dei più importanti registi e attori del teatro italiano contemporaneo: ha diretto lo Stabile di Torino, l’Eliseo di Roma e adesso è al Teatro della Pergola di Firenze. Nella sua carriera, cominciata cinquant’anni fa, c’è stato spazio anche per il cinema (il suo “amante segreto”) e la televisione (furono gli sceneggiati di Majano a renderlo noto al grande pubblico). Il discorso sulla parola e sul linguaggio lo riguarda e coinvolge perché, ci spiega, “è un discorso filosofico, quindi sull’essere dell’uomo” e perché senza la parola non c’è teatro.
Il gesto può fare più di una parola?
Non è possibile. Il Vangelo di Giovanni, altrimenti, non si aprirebbe con “In principio era il logos (il discorso, la parola)”. Il logos: non la mimesis. La natura e la parola, negli esseri umani, si fondono e nel teatro si coniugano: è per questo che sul palcoscenico tutto è fatto di parole, tutto accade attraverso le parole. Quella teatrale è una parola fondante, pronunciata da un essere umano, quindi incarnata da lui e in lui. Il cinema, invece, essendo movimento, può farne a meno, può essere muto.
E la televisione?
La guardo molto distrattamente. Già solo le inquadrature delle fiction mi annoiano, mi ripugnano.
Forse perché lì le parole sono solo strumentali, mai espressive.
Esagera: la realtà è più semplice. Gli attori delle fiction sono cani. Per non parlare delle attrici. Non so bene per quale ragione, ma mentre in teatro è più facile incontrare attori cani, in televisione sono le attrici a essere le più inqualificabili incapaci. O, forse, capita solo a me di incontrarne: magari è il mio destino, una mia nemesi.
«Gli attori delle fiction sono cani. Per non parlare delle attrici. Non so bene per quale ragione, ma mentre in teatro è più facile incontrare attori cani, in televisione sono le attrici a essere le più inqualificabili incapaci»
Le parole contengono un limite insuperabile? La parola rosso non sarà mai rossa come il colore rosso, diceva Simone De Beauvoir, drammaticamente.
Lo scarto tra la parola e ciò che indica permane non solo quando è scritta, ma pure quando è detta, recitata: in entrambi i casi si scontra con un problema irrisolvibile rispetto alla realtà del reale. Aristotele dà un esempio importante, che io ripeto spesso ai miei attori: immaginiamo che esista un cieco dalla nascita che conosca i nomi di tutti i colori che esistono. Il modo in cui quel cieco dirà la parola verde o rosso o blu non ha nulla a che fare con il verde, il rosso e il blu che, chi lo ascolta, vede ed esperisce. La parola è apofantica: resta sempre vicina a ciò che descrive, ma separata. Nel teatro di ricerca e di avanguardia si diceva “verde, giallo, rosso, merda” e si sperimentava come tutte le parole fossero, in fondo, uguali.Allora la libertà d’espressione non può mai essere totale?
La libertà d’espressione esiste se è guidata da una volontà libera.Indipendentemente dal significato che hanno, esistono parole che, quando recita, le danno un piacere?
Non provo mai piacere quando recito perché recitare è troppo complicato, è una maledizione, così come lo è la scrittura per uno scrittore. Entrambe le cose comportano un confronto senza sconti con la propria inadeguatezza. È come entrare in un grande magazzino, voler comprare tutto ma non avere denaro sufficiente.«Il teatro è il luogo di uno sguardo che è anche verità e i suoi spettatori hanno oggi il talento più basso della loro storia. La televisione ha abbassato la capacità di guardare, ricevere, entrare in comunione con gli attori attraverso le parole»
Accade anche al pubblico?
Certo. Il pubblico è indispensabile: in sua assenza, non c’è comunicazione. La comunicazione è sempre una comunione: le due parole hanno il medesimo significato. Donare il corpo, infilare nello spettatore ciò che le parole rappresentano e farlo attraverso le parole stesse, cercando di restituirne l’humus, è un dono per chi lo dà e per chi lo riceve. Un gesto d’amore in senso greco, che quindi implica una co-appartenenza. Fare lo spettatore è difficile, implica certamente anche un confronto con la propria impotenza, con i propri limiti.Il pubblico cambia in base al tempo in cui vive?
Nel nostro presente, il pubblico è solo fisico, ormai abituato quasi esclusivamente al cinema. Il teatro è il luogo di uno sguardo che è anche verità e i suoi spettatori hanno oggi il talento più basso della loro storia. La televisione ha abbassato la capacità di guardare, ricevere, entrare in comunione con gli attori attraverso le parole. La maggior parte delle persone non è mai stata a teatro, ma al cinema sì: nel ‘600, a teatro, quasi tutti ci erano stati almeno una volta nella vita.