Il cold case del Provenzale, la lingua che ha inventato l’amore romantico uccisa per motivi politici

La crociata contro gli Albigesi ha segnato la fine della lingua poetica più prestigiosa del Medioevo

In quale lingua è scritta la Divina Commedia? L’ovvia risposta vale per quasi tutti i 14.223 endecasillabi che compongono l’opera di Dante, ma non per tutti. I più ferrati potranno ricordare che, di tanto in tanto, Dante inserisce parole incomprensibili o oscure – come il Pape Satàn, pape Satàn aleppe che apre il canto VII dell’Inferno e dà anche il titolo al primo libro postumo di Umberto Eco – e qualche verso latino, ma c’è un personaggio – uno solo – che può parlare piuttosto a lungo in una lingua diversa dall’italiano.

Alla fine del XXVI canto del Purgatorio, mentre si trova tra i lussuriosi, Dante Alighieri incontra un poeta che gli è presentato come il migliore che abbia mai scritto in volgare. Ed è il poeta stesso che, subito dopo, prende la parola e risponde a Dante – che gli ha chiesto la sua identità – con ben otto versi in una lingua “straniera”: «jeu sui Arnaut, que plor e vau cantan», cioè «io sono Arnaut, che piango e vado cantando». L’infelice è il trovatore Arnaut Daniel, di cui Dante era un grande ammiratore: tanto da farlo parlare, in segno di rispetto e stima, nella lingua in cui aveva scritto le sue poesie.

Solo il trovatore provenzale Arnaut Daniel, nella Divina Commedia, parla per più versi in una lingua che non è l’italiano

Arnaut parla infatti in provenzale, uno degli idiomi più importanti della cultura europea ancora al tempo di Dante (per quanto ormai in decadenza) e la cui storia è emblematica di che cosa accade quando, di una lingua, scompare la struttura sociale e politica in cui vive e, con loro, se ne va anche la sua letteratura.

Lingue che nascono, lingue che muoiono

Le lingue muoiono, anche se non sempre scompaiono del tutto. Tra quelle che oggi non sono più parlate, solo per fare qualche esempio, ci sono l’etrusco, la lingua egizia e quella sumera. Più di recente, la globalizzazione e la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa sono le principali sospettate nella morte o nel grave danno fatto a centinaia di lingue contemporanee.

L’Unesco stima che circa duemilacinquecento lingue siano a rischio di estinzione e che tra poche generazioni se ne potrebbe perdere l’uso. Può succedere, ma è molto più raro, che le lingue da morte tornino a vivere (il caso più notevole è l’ebraico).

Altre lingue hanno attraversato un destino ancora diverso: da strumento di una cultura viva e influente per tutto un continente sono di fatto diventate la lingua parlata da una ristretta minoranza, che per lo più non la utilizza come unica e nemmeno principale. È il caso del provenzale e della Francia del sud, dopo la fine del Medioevo.

Intorno al 1176, Chrétien de Troyes scrisse che la gloria letteraria passata dalla Grecia a Roma si era fermata, appunto, nel suo paese

A partire dall’XI secolo, il centro della cultura europea era senza dubbio in Francia, come riconoscevano gli stessi contemporanei. Intorno al 1176, Chrétien de Troyes scrisse, nel prologo di un suo romanzo (il Cligès), che la gloria letteraria passata dalla Grecia a Roma si era fermata, appunto, nel suo paese.

Già, ma quale Francia – e soprattutto quale francese? Ai tempi di Chrétien si possono distinguere a grandi linee due aree principali, distinte per storia, struttura sociale e per la lingua: il nord, dove si parlava e scriveva in nel cosiddetto “francese antico” – quello di Chrétien – e il sud, dove la lingua dominante era il provenzale o occitano.

Il nord era stato invaso e controllato ben più a lungo dai barbari di origine germanica; il sud era stato romanizzato ben più a fondo – della Gallia Narbonensis, l’attuale Provenza, si diceva che fosse «Italia stessa, più che una provincia» e – nei due territori erano nate lingue che nel corso dei secoli erano diventate ben distinte tra loro, per quanto con un’infinità di sfumature intermedie e dialetti.

Dal Medioevo a Sanremo

Il sud era dominato da piccole corti feudali, tra cui viaggiavano poeti itineranti che vivevano della generosità dei signori e cantavano i loro componimenti accompagnati dalla musica. I trovatori erano così celebri in tutta Europa che presto fenomeni simili nacquero in Germania, nel nord dell’Italia e alla corte siciliana dei normanni.

La poesia italiana delle origini, Dante incluso, deve moltissimo a quella di Provenza

Sordello da Goito, per fare solo un nome, fu un trovatore nato vicino a Mantova che viaggiò tra le corti del sud della Francia e scrisse, come l’arte richiedeva, in lingua provenzale. Anche se i libri scolastici non vanno spesso oltre qualche breve riferimento, e i versi dei trovatori non si leggono nelle nostre scuole, la poesia italiana delle origini, Dante incluso, deve moltissimo a quella di Provenza.

Fu un fenomeno straordinario, infatti, ma anche ben circoscritto nel tempo. La poesia dei trovatori ha date di nascita e di morte piuttosto precise. Il primo trovatore, Guglielmo IX duca d’Aquitania (e VII conte di Poitiers) cominciò a scrivere intorno alla fine dell’XI secolo. Dell’ultimo, Guiraut Riquier, abbiamo poesie databili fino al 1292.

Circa duecento anni, insomma, durante i quali i poeti provenzali svilupparono in lungo e in largo un’idea letteraria che fa sentire ancora oggi la sua influenza, passata attraverso i secoli con infinite variazioni: quella che la donna amata sia perfetta e irraggiungibile e che al poeta non resti che celebrare quella perfezione e lamentarsi di quell’irraggiungibilità. Gran parte delle duemilacinquecento poesie trobadoriche che ci sono arrivate – e che continuano a essere studiate e pubblicate in nuove edizioni, al ritmo di una o due l’anno solo in lingua italiana – sono poesie d’amore.

Le lontanissime radici dei versi più triti di Sanremo sono nel sud della Francia, più di otto secoli fa

Oggi lo chiamiamo “amore cortese”, anche se loro preferivano chiamarlo fin’amor, cioè “amore perfetto”. Se vi sembra uno stereotipo da canzonetta pop, sappiate che le lontanissime radici dei versi più triti di Sanremo sono nella regione tra le Alpi e il Rodano, nel sud della Francia, più di otto secoli fa.

«Dio riconoscerà i suoi»

Che cosa portò alla fine una civiltà letteraria così splendida? In una parola, la guerra. L’evento più drammatico fu, più in particolare, una guerra di religione: la crociata contro gli Albigesi, indetta da papa Innocenzo III nel 1208. Gli Albigesi erano gli abitanti di Albi, anche se la loro eresia aveva il centro della sua forza a Tolosa. Essi sostenevano che Gesù era un angelo, senza natura umana né divina, rifiutavano l’Antico Testamento e odiavano i cattolici. Per loro, il mondo era stato creato da un’entità malvagia: la via per salvarsi era quindi l’iniziazione e l’ascetismo.

I crociati, guidati da diversi prelati del clero cattolico francese, conquistarono numerose città del sud, come Béziers, Narbona e Carcassonne. Presto arrivarono anche cavalieri e nobili dal nord della Francia, attratti dai territori delle corti provenzali più che dalla volontà di sradicare l’eresia.

Quando la lunga e confusa crociata contro gli Albigesi finì, nel 1229, il panorama della Provenza era cambiato per sempre

Il furore dei crociati nel sud della Francia ha il suo lontano ricordo in una frase rimasta ancora oggi proverbiale, quella attribuita all’abate (poi arcivescovo di Narbona) Arnaud Amaury. Questi, quando gli venne chiesto chi salvare tra chi si era rifugiato in una chiesa e chi invece catturare perché eretico, rispose, secondo un cronista del tempo: «Uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi».

Tra cambi di schieramento dei signori locali, assedi, alleanze e tradimenti, la crociata nel sud della Francia andò avanti per vent’anni. Quando la lunga e confusa guerra finì, nel 1229, il panorama della Provenza era cambiato per sempre, e nella politica più ancora che nella religione: il cattolico re di Francia aveva riportato il sud del paese sotto la sua influenza, con la benedizione papale.

Come molti eretici, numerosi trovatori si dispersero per l’Europa, rifugiandosi spesso nell’Italia del nord. Il francese (settentrionale) diventò a poco a poco la lingua dominante in tutta la Provenza, come certificò l’editto di Villers-Cotterêts, nel 1539, con cui il francese divenne l’unico strumento per le comunicazioni ufficiali.

Il poeta in lingua provenzale Frédéric Mistral vinse, nel 1904, il Nobel per la Letteratura: una rinascita effimera

Così, più che la fine di una lingua, con il declino del provenzale siamo davanti alla morte di una cultura. Per qualche decennio ancora la poesia in provenzale ebbe qualche esponente, anche importante, ma ormai l’età d’oro era passata.

Dopo il XIV secolo, il mondo non sentì più parlare del provenzale fino a quando, nel 1904, il poeta Frédéric Mistral – che scriveva nella versione moderna di quella lingua – non vinse il premio Nobel per la letteratura. Fu però una rinascita effimera: a oggi, i dialetti provenzali superstiti restano parlate come seconda lingua in alcune zone della Francia, della Spagna e in alcune valli dell’oriente piemontese. Sono designati dall’Atlante delle lingue UNESCO come “gravemente in pericolo”, mentre l’occitano, in Francia, non gode di alcun riconoscimento ufficiale.

Si dice spesso che gli ultimi trovatori – ormai quando la Provenza era già stata messa a ferro e fuoco – si fossero chiusi in una stanca ripetizione degli stessi temi, ma a questo proposito Alfred Jeanroy, un grande filologo romanzo, scrisse che «nessuna letteratura è mai morta sotto il solo peso della sua mediocrità».

Quello che venne a mancare, nella Provenza del XIV secolo, fu un pubblico in grado di apprezzare e, prima ancora, di richiedere la poesia dei trovatori. È una lezione triste, ma non per questo meno vera: la lingua vive anche della forza della cultura di chi la parla.

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