Gli animali sono tutti uguali? Per niente. Lo sanno bene i promotori di campagne di sensibilizzazione, che privilegiano, quando si tratta di scucire soldi ai volubili umani, immagini di simpatici panda, soffici leoni, e goffi orsacchiotti polari. La cosa può non essere un problema, se si limita a questo livello. La verità è che, però, gli animali “brutti” sono discriminati. Ricevono meno attenzione mediatica (e questo vabbe’) ma anche meno attenzione scientifica. Meno simpatia (estetica) significa meno studi, meno conoscenze, meno protezione di fronte al pericolo dell’estinzione.
L’allarme è stato lanciato da uno studio pubblicato su Mammal Review. Hanno stilato una lista di circa 330 mammiferi australiani, e ognuno è stato inserito in una categoria diversa: o “brutto”, o “buono” o, come era ovvio, “cattivo”. Citazioni cinematografiche a parte, “buoni” sono risultati i koala, i canguri e i loro simili. “Cattivi”, invece, sono conigli e volpi. Mentre nella categoria “brutti”, poveri loro, sono finiti i pipistrelli e i topi. Tutto questo per dire cosa? Che i brutti sono discriminati. Gli scienziati hanno passato al setaccio, per ogni categoria, tutte le pubblicazioni scientifiche dal 1900 a oggi, sommando una pila di 14.248 paper. Sono riusciti, in questo modo, a stabilire quale specie sia stata studiata di più, e quanto spesso.
Risultato: un enorme squilibrio. I “buoni” si sono accaparrati studi su anatomia e fisiologia, i “cattivi” ricerche per lo sradicamento e il controllo delle nascite. E i “brutti”? Quasi nulla. Ignorati, dimenticati: sui quasi 15mila studi, sono apparsi solo su 1587 lavori. E pensare che costituiscono il 45% delle specie sulla lista. Crudeltà.
Un certo imbarazzo ha colto i ricercatori, che hanno cercato di rimediare. “Sappiamo davvero poco su queste specie”, ha spiegato Patricia Fleming, a capo del team di ricerca. “Su come si riproducono, cosa mangiano, sulle loro necessità non siamo informati”. Bisognerà rifarsi, ma prima sarà necessario vincere il ribrezzo.