Respinta la mozione di sfiducia presentata dalle opposizioni, Roberto Maroni ha detto che si ricandiderà nel 2018 per un secondo mandato come governatore della Lombardia, prospettiva che nei mesi passati aveva escluso per favorire un ricambio generazionale.
L’arresto del suo plenipotenziario per la riforma della sanità regionale, il compagno di partito (poi sospeso dalla Lega Nord) Fabio Rizzi, accusato di un giro di mazzette per favorire l’assegnazione di servizi odontoiatrici a imprese amiche, non ha avuto conseguenze sulla permanenza di Maroni alla guida della Regione. Un risultato abbastanza scontato, visto che i numeri della maggioranza non sono stati mai in discussione: Lega, Forza Italia, Ncd, Fratelli d’Italia, Lista Maroni e Pensionati avevano già confermato il loro pieno sostegno alla Giunta. Al Partito Democratico, alla Lista Ambrosoli e al Movimento 5 Stelle, che avevano firmato insieme la mozione di sfiducia, non è così rimasto che gridare la propria indignazione e incassare una nuova bocciatura (fatto artimetico, senza novità sostanziali nella maggioranza) alla richiesta di dimissioni di Maroni già avanzata dopo l’arresto del vice-governatore ed ex assessore alla Salute Mario Mantovani, di Forza Italia.
L’arresto di Fabio Rizzi, accusato di un giro di mazzette per favorire l’assegnazione di servizi odontoiatrici a imprese amiche, non ha avuto conseguenze sulla permanenza di Maroni alla guida della Regione
Un fatto però emerge sullo sfondo del caso Rizzi: la Lega continua ad avere pochissimi nomi di peso (e alla fine sono sempre gli stessi) da spendere nei livelli istituzionali intermedi, in quelle posizioni dove il potere si esercita dietro le quinte, nella tessitura quotidiana di relazioni e decisioni. E questo inizia a pesare in una fase politica in cui serve una grande rapidità di esecuzione per stare al passo. Maroni aveva delegato a Rizzi, un ex senatore varesotto un tempo molto vicino anche a Umberto Bossi, le scelte politiche di fondo nella sanità lombarda. Si fidava di lui.
E in Lega in molti lo ascoltavano ritenendo che la sua storia professionale di medico anestesista fosse una garanzia che avesse anche una statura politica adeguata a rivoluzionare il settore che gestisce i tre quarti del bilancio regionale e che era stato organizzato ai tempi di Roberto Formigoni. Ora che la magistratura ha spazzato via Rizzi, Maroni non ha altri a cui affidarsi se non, prima di tutto, a se stesso: dopo ventun’anni in Parlamento, due mandati da ministro dell’Interno, uno da ministro del Lavoro e anche una parentesi come vice-primo ministro, il governatore si è messo a fare (ad interim) anche l’assessore alla Salute, perché non trova nessuno di cui fidarsi ciecamente.
Si affida a se stesso, ma anche ai tecnici: per “fare pulizia e aumentare i controlli”, Maroni ha insediato una commissione d’inchiesta guidata da un ex generale della Finanza, Mario Forchetti, e ha deciso di istituire un’authority sul modello dell’Anac di Raffaele Cantone da affidare a “un super-magistrato”.Dalla sanità alle grandi aziende pubbliche, un altro esempio di carenza di politici-manager (o manager-politici) leghisti emerge sempre in casa di Maroni, e qui la giustizia non c’entra. Proprio in questi giorni il governatore ha infatti ceduto come amministratore delegato di Arexpo, la società che si occuperà del dopo-Expo, il suo segretario generale Giuseppe Bonomi, arrivato in Regione da pochi mesi. Bonomi, avvocato sempre di Varese, è un nome di peso, è uno dei pochi tecnici leghisti rimasti in auge fin dai primi anni Novanta, come lo è anche Antonio Marano in Rai.
Quando c’è stato da indicare un presidente della Sea, la società degli aeroporti di Milano, o un consigliere di amministrazione dell’Anas o un presidente dell’Alitalia vicino a via Bellerio, Bonomi è sempre stato l’unico ad avere il profilo giusto per esserci. Dal 1993, anno della nomina ad assessore a Milano, fino al recente arrivo nella squadra di Maroni, che per un altro incarico delicato come quello per il dopo-Expo non ha appunto avuto alcun dubbio (o scelta?): indicare ancora una volta Bonomi. Il punto è che per sostuire Bonomi in Regione, non è stato trovato alcun altro nome spendibile di area leghista. E Maroni ha finito per promuovere sul campo il vice Antonello Turturiello, persona affidabile ma “non leghista”, per stessa definizione del governatore.La Lega continua ad avere pochissimi nomi di peso (e alla fine sono sempre gli stessi) da spendere nei livelli istituzionali intermedi
Sicuramente questa carenza di uomini macchina inizia a farsi sentire anche sulle spalle del giovane segretario Matteo Salvini, che a livello popolare ha messo rapidamente in ombra tutta la vecchia guardia del partito – da Bossi a Maroni a Calderoli – ma che sulle questioni delicate deve affidarsi all’eredità del passato.
Perché Salvini non ha ancora formato una sua classe dirigente capace di muoversi autonomamente. Non solo sulle questioni tecniche, ma anche su quelle politiche, come dimostra la difficoltà della Lega di incidere nelle scelte per i candidati sindaco alle Comunali. Solo pochi giorni fa, Salvini ha salutato i due vice-segretari federali che erano cresciuti alla sua ombra nei Giovani Padani, Edoardo Rixi e Riccardo Molinari: al loro posto sono stati nominati il veneto Lorenzo Fontana, ma soprattutto Giancarlo Giorgetti, un altro varesino, l’uomo delle mediazioni con Roma, con Berlusconi e i poteri che contano.
Anche Giorgetti è un pezzo di quella storia leghista ventennale che fatica a trovare eredi e che periodicamente riporta Salvini (che a Roma è riuscito a riesumare persino Irene Pivetti) a fare i conti con la real politik più che coi sondaggi. Se i nuovi leghisti non cresceranno, i sondaggi potrebbero non bastare a voltare definitivamente pagina.Twitter: @ilbrontolo