In giapponese la parola birra, fatta salva la traslitterazione, non è poi così diversa dall’italiano. Quando i bevitori del Sol Levante entrano in un bar dicono “bīru” per ordinare una bionda dissetante. Basterà allora cambiare una lettera e toglierne un’altra per avere la nuova etichetta della Peroni, il marchio italiano attivo da 160 anni che il 19 aprile è stato venduto ai giapponesi di Asahi per 2,55 miliardi di euro. Non siamo però di fronte a un nuovo caso Parmalat o Alitalia. Nessun “saccheggio” del made in Italy. A vendere la Peroni ai giapponesi è stata la sudafricana (con base a Londra) SABMiller in un domino imprenditoriale che fa cadere ogni ostacolo per la sua acquisizione da parte di AB InBev e la firma su un accordo da oltre 90 miliardi di euro.
Dati alla mano, si tratta della quarta acquisizione più costosa mai avvenuta. Un’unione che darà vita al primo operatore mondiale nel mercato della birra con una quota di mercato globale del 30% e un utile netto di oltre cinque miliardi di euro. Un record che è bastato a far drizzare le antenne agli organi di controllo dell’antitrust britannico. E allora ecco la cessione non solo di Peroni, ma anche dell’olandese Grolsch e del birrificio londinese Meantime. AB InBev, però, non si ferma qui. Dopo aver distanziato tutti gli altri concorrenti (Heineken e Carlsberg, precedentemente terza e quarta forza del mercato, si fermano rispettivamente al 9 e al 6% della produzione birraia a livello globale), punta decisa al comparto artigianale che negli ultimi anni ha vissuto un vero e proprio boom.
Nei soli Stati Uniti, le craft beer nel 2015 hanno fatto registrare un fatturato da 22 miliardi di dollari su un totale di 105,9 miliardi dell’intero settore brassicolo. A livello assoluto potrebbero sembrare briciole, ma per un gigante come AB InBev rappresentano un settore d’investimento con un tasso di crescita del 12% lo scorso anno (contro il meno 0,2% dell’intera industria birraia). A testimoniarlo sono le acquisizioni dell’ultimo periodo: Breckenridge Brewery, Goose Island, Blue Point, Elysian, Camden Town Brewery e Four Peaks Brewing.
Nei soli Stati Uniti, le craft beer nel 2015 hanno fatto registrare un fatturato da 22 miliardi di dollari su un totale di 105,9 miliardi dell’intero settore brassicolo con un tasso di crescita del 12% lo scorso anno (contro il meno 0,2% dell’intera industria birraia).
Dinamiche che potrebbero riprodursi anche in Italia dove, come ha precisato Piero Perron direttore di Heineken Italia, «non c’è nessuna azienda che è riuscita a raggiungere dimensioni tali da poter restare indipendente nella grande competizione mondiale della birra». D’altronde, fra le etichette tradizionali di livello industriale, le uniche che non sono in mano a gruppi stranieri sono solamente due: Forst/Menabrea e Pedavena/Castello. Nonostante ciò, resta spazio per il settore artigianale e, in particolare, per i fenomeni micro (i birrifici che producono meno di mille ettolitri l’anno) che dal 2008 al 2013 hanno fatto registrare una crescita del 138%. Certo, rappresentano “solo” il 3% della produzione (circa 378 mila ettolitri nel 2014), ma il loro appeal è fuori discussione tanto da indurre alcune aziende come Moretti e Ceres a rincorrere il fenomeno con prodotti come “Le Regionali” e “Norden”. «Le mosse di AB InBev e di altri grandi marchi rispondono a logiche di mercato molto semplici – afferma Andrea Turco, direttore di Cronachedibirra.it – Da un lato si punta a differenziare l’offerta, dall’altro si tratta di una questione di moda».
In questo senso, l’ultima tendenza sono i beer firm: produzioni artigianali effettuate da birrai più o meno esperti, molto spesso giovani alle prime armi o con una forte passione per la birra, utilizzando impianti di terzi. Secondo il database di Microbirrifici.org, nel 2014 i beer firm rappresentavano il 23,7% delle produzioni artigianali con una forte presenza in Lazio (44%), Marche e Lombardia. «Si tratta di un fenomeno contraddittorio – afferma Turco – Ci sono prodotti di diversa qualità, mentre da un punto di vista imprenditoriale rappresentano solo il primo passo per realizzare un birrificio vero e proprio. D’altronde il fenomeno dell’artigianalità attualmente è leggermente inflazionato in Italia. Le nuove aperture nel 2015 si sono assestate sugli stessi livelli del 2014 e se non ci si evolve il rischio è chiudere i battenti velocemente».