La cronaca nera in questo ultimo periodo ci tiene occupati con molti fatti delittuosi e processi giudiziari: dal massacro di Luca Varani sotto i fendenti di coltello e martello nella mani di Manuel Foffo e Marco Prato all’omicidio della professoressa Rosboch ad opera della coppia di amanti Gabriele Defilippi e Roberto Obert; dal processo a Massimo Bossetti per la morte della piccola Yara Gambirasio ai continui cambiamenti di versione dinanzi ai magistrati di Veronica Panarello, in carcere per l’omicidio del figlio Loris Stival; dal triangolo di amore, denaro e morte inscenato da Freddy Sorgato, sua sorella Debora e la tabaccaia Manuela Cacco per far sparire Isabella Noventa ai diabolici fidanzati Giosuè Ruotolo e Rosaria Patrone, implicati nell’assassinio di Trifone Ragone e Teresa Costanza. In ultimo il caso della presunta infermiera killer di Piombino, Fausta Bonino, che avrebbe ucciso 13 pazienti non terminali.
Tanti di noi si sentono moderni Sherlock Holmes mentre dai salotti televisivi, dalle pagine facebook, dalle colonne di giornali e dai tavoli dei bar si emettono sentenze – prima dei tribunali – interrogandosi su moventi e dinamiche dei gesti criminali. Tra le questioni discusse c’è spesso quella sulla capacità di intendere e volere: la giornalista Federica Sciarelli nella puntata del 16 marzo di Chi l’ha visto? stigmatizza così “Sono tutti pazzi quando devono andare in carcere ma tutti lucidi quando devono uccidere”; in realtà la domanda legittima sarebbe: il presunto assassino avrebbe potuto fare altrimenti se lo avesse voluto?
Dagli Usa, addirittura, è sbarcato da anni in Italia, sul canale Crime Investigation, il programma ‘Nato per uccidere‘, la serie che esplora da vicino le azioni efferate degli assassini e dei serial killer più malvagi che siano mai esistiti. Perché hanno compiuto crimini così efferati? Sono stati spinti dalla natura o dalla cultura?
Immaginando questi individui come una arma è corretto ipotizzare che la genetica carica il fucile, la psicologia mira e l’ambiente tira il grilletto?
Secondo alcuni studiosi è possibile identificare elementi nel cervello e nel profilo genetico di un individuo che possano dar vita ad un comportamento criminale. Come va dunque riscritta la responsabilità penale, basata sulla capacità di autodeterminarsi, e la pena da infliggere al colpevole?
Per fornire una risposta a queste domande è necessario introdurre un nuovo elemento: il neurodiritto, ovvero le più aggiornate scoperte neuroscientifiche applicabili all’ordinamento normativo. Termini ostici ma affascinanti per i contributi che danno e per quelli possibili che potranno fornire alla giurisprudenza. A rendere più comprensibile la materia ha provveduto con un memorandum dal titolo ‘Le capacità giuridiche alla luce delle neuroscienze‘ un gruppo di esperti tra giuristi, neuroscienziati, psicologi.
Come si legge nel memorandum “la sfida della prova neuroscientifica in ambito processuale penale, ai fini dell’attribuzione di responsabilità, è quella di: a) identificare i circuiti cerebrali necessari alla formazione della consapevolezza e delle intenzioni; b) dimostrare se e in che misura i circuiti cerebrali dell’imputato fossero difettosi al momento di pianificare l’azione e di controllare un impulso; c) valutare quanto l’eventuale deficit possa aver influito sul compimento dell’azione illecita”.
Tra i firmatari e i promotori ci sono l’avvocato Guglielmo Gulotta, docente di psicologia giuridica all’Università di Torino, e lo psichiatra Pietro Pietrini, ordinario di biochimica clinica e biologia molecolare e Direttore presso la Scuola IMT Alti Studi di Lucca.
Entrambi sono legati, come legale il primo e come perito psichiatrico il secondo insieme al professor Giuseppe Sartori dell’Università di Padova, al caso di Stefania Albertani. La ragazza di Cirimido, provincia di Como, fu dichiarata colpevole, nel maggio 2011 con rito abbreviato, per omicidio e occultamento di cadavere della sorella, e per il doppio tentativo di uccisione di entrambi i genitori. Il Gip di Como, Luisa Lo Gatto, condannò la Albertani a venti anni di reclusione invece che all’ergastolo, riconoscendole un vizio parziale di mente per la presenza di «alterazioni» in «un’area del cervello che ha la funzione» di regolare «le azioni aggressive» e, dal punto di vista genetico, di fattori «significativamente associati ad un maggior rischio di comportamento impulsivo, aggressivo e violento». La decisione fu supportata oltre che da accertamenti psichiatrici tradizionali, anche da analisi neuroscientifiche, che indagarono la morfologia del cervello e il patrimonio genetico dell’imputata. Si trattò del primo riconoscimento in Italia, e fra i primi al mondo, della validità delle neuroscienze per l’accertamento dell’imputabilità. Il caso fu trattato anche sulla prestigiosa rivista scientifica Nature.
Il professor Pietrini, raggiunto telefonicamente, ci ricorda questo episodio inerente il caso: “il giudice mi chiese: «Di questa persona che ne facciamo, cosa facciamo di questa ragazza che ha 27 anni ?». Io risposi che se la pena deve avere – come ha – una doppia valenza – punitiva e riabilitativa – credo che compatibilmente con quanto prevede l’ordinamento la cosa migliore sia affidare Stefania Albertani ad un percorso riabilitativo psicoterapeutico e psicofarmacologico integrato perché in questo modo si può sperare di modificare la personalità che non si è ancora formata bene, che si è formata in maniera distorta; le neuroscienze ci insegnano che il cervello è plastico. Se vogliamo perseguire lo scopo di restituire un domani – il domani lo stabilirà la pena – alla società una Stefania Albertani diversa, bisogna agire in questo modo. E poi se la pena deve avere anche una valenza punitiva può avere massima efficacia solo in una Stefania Albertani che ha preso consapevolezza del disvalore sociale degli atti da lei commessi. Il giudice accolse in pieno questa prospettiva. Se avesse avuto piena capacità di intendere e volere avrebbe ricevuto l’ergastolo senza neppure comprendere pienamente la natura e il disvalore di ciò che aveva commesso”.
Professor Pietrini questo potrebbe significare che chi presenta gli stessi deficit cerebrali o particolari alleli genetici può commettere un reato così grave?
Assolutamente no. Come ribadiamo nel memorandum non esiste alcun determinismo genetico: nessuna variante genetica determina un dato comportamento, ma modula la sua vulnerabilità rispetto ai fattori ambientali. Quindi tale variante non è condizione né necessaria né sufficiente per una azione criminale, rappresenta però un fattore di rischio per la messa in atto di un comportamento impulsivo, aggressivo. Crediamo che un concorso di cause possa aumentare in un individuo la probabilità di mettere in atto una risposta impulsiva, specialmente a seguito di un comportamento di provocazione, come un litigio, ad esempio.
Perché qualcuno perde il controllo e altri no?
Non sempre la ragione ha il sopravvento sulle emozioni e sugli impulsi. Finché le scelte in cui prevale l’aspetto emotivo sono scelte minori le conseguenze sono scarse. Quando si tratta di rapporti sociali le conseguenze possono essere notevoli.
Potenzialità e limiti delle prove neuroscientifiche (immagine del cervello estrapolata da una risonanza magnetica, vulnerabilità genetica) rispetto alle valutazioni neuropsichiatriche, neuropsicologiche e agli aspetti sociali standard. Qual è il grado di certezza della sfera genetica e neurobiologica da applicare in ambito forense?
Gli esami, i test, le valutazione di per se stessi sono tecnicamente, metodologicamente assolutamente standardizzati e riproducibili: il risultato non cambia a seconda di chi conduce l’esame. Per di più è un esame assolutamente ripetibile in quanto i nostri geni rimangono sempre gli stessi dalla nascita alla morte e anche dopo nel caso di una eventuale riesumazione del cadavere.
Queste tecniche stanno assumendo negli Usa un ruolo chiave all’interno delle acquisizioni probatorie nei processi. Solo nel 2012 sono state registrate più di 250 sentenze in ambito penale che citano l’utilizzo da parte della difesa di una prova neuroscientifica. Addirittura Obama ha deciso di commissionare alla Bioethics Commission la stesura di norme etiche a cui le neuroscienze devono sottostare anche in ambito legale. E in Italia c’è più difficoltà. Perché?
Il concetto non è se l’esame sia affidabile o no. Bisogna capire quale peso può avere sull’individuazione della pena. Nei procedimenti penali il giudice chiede al perito la ricostruzione delle criminogenesi e delle criminodinamica, cioè di spiegare in che modo un individuo abbia potuto arrivare a strozzare la moglie, ad esempio. Dal punto di vista scientifico io mi chiedo se quella persona che ha strozzato la moglie avesse coscienza dell’atto e fino a che punto avrebbe potuto agire in modo diverso se lo avesse voluto. Le neuroscienze possano offrire uno strumento potente per queste indagini.
E i tribunali italiani? Perché hanno difficoltà a ricorrere a questi mezzi?
Perché i dati oggettivi rendono meno soggettiva la possibilità di decidere in un senso o in un altro. In un processo molto spesso c’è un perito del giudice, un consulente della difesa, un consulente del pm, un consulente delle parti lese. Ciascuno può sostenere per ragioni diverse – quindi con ampia variabilità – se l’imputato sia capace di intendere e di volere, e in che grado. Le neuroscienze riducono il grado di variabilità soggettiva. Questo è percepito come una invasione di campo. Il perno di tutto, nel processo penale, è il libero arbitrio, cioè la capacità di intendere e di volere: se lo si ritiene misurabile in modo oggettivo, si riduce sostanzialmente il potere del giudicante. La legge, in ogni caso, sempre con la dovuta prudenza, ha sempre fatto sue le nuove conoscenze delle neuroscienze o delle scienze sociali. Il magistrato non ha difficoltà a capire che un individuo cresciuto in un ambiente negativo, che aveva genitori spacciatori, possa essere facilitato a commettere un crimine. E quando le neuroscienze provano che il tizio aveva una componente genetica meno resistente degli altri – a parità di ambiente quello con queste componenti genetiche è molto più vulnerabile – il rischio che crescendo diventi un criminale è più elevato.
Gli Italiani tendono ad essere forcaioli e colpevolisti. Il garantismo e il rispetto della Costituzione latitano se si pensa ad esempio alle recenti dichiarazioni di Rita Dalla Chiesa che chiede la pena di morte per gli assassini di Luca Varani. Che impatto crede possano avere sulla società queste nuove tecniche scientifiche al servizio della giustizia?
In inglese si dice bad or mad, cattivi per scelta o perché malati. Più andranno avanti gli studi delle neuroscienze e più la lancetta si sposterà da bad a mad. Nel ‘800 l’epilettico – e ancora oggi in alcuni paesi dell’Africa – veniva considerato un indemoniato. Poi la scienza ha dimostrato che l’epilessia è una banale malattia neurologica, il che non significa che la società non debba prendere precauzione per l’individuo e per se stessa – all’epilettico non viene data la patente per guidare il pulmino dei bambini, perché nonostante la terapia rimane vulnerabile ad attacchi epilettici. Il concetto non è molto diverso per il comportamento socialmente deviante. Ci sono criminali psicopatici che non provano quelle emozioni e sentimenti che sono alla base della vita sociale e del rispetto degli altri. Herbert Maudsley, famoso psichiatra inglese vissuto a cavallo dello scorso secolo, scriveva che “Così come ci sono persone che non possono distinguere certi colori, affette da quella che chiamiamo cecità per i colori, ed altre che non distinguono un tono musicale da un altro, essendo privi di orecchio per la musica, ce ne sono alcuni che sono congenitamente privi di qualsivoglia senso morale“. Le neuroscienze oggi offrono la possibilità di una verifica oggettiva di queste osservazioni.