Nei suoi sedici anni alla guida del Paese, considerati ovviamente anche i quattro in cui Dmitri Medvedev gli ha scaldato la poltrona, Putin non è sembrato così stabile e sicuro nelle stanze del Cremlino come oggi. A pochi mesi dalle elezioni per la Duma in calendario a settembre e in vista delle presidenziali del 2018, Vladimir Vladimirovich a livello interno non è messo certo alle corde da un’opposizione che di fatto non esiste, il suo ruolo di mediatore tra i poteri forti sta mantenendo ancora la pax oligarchica e non si sono scatenate faide per la successione. Almeno per ora.
Anche la questione del terrorismo islamico, che nella Federazione russa è una delle più critiche, a partire proprio dalla lunga scia di sangue lasciata negli ultimi tre lustri con centinaia di vittime tra la capitale e i maggiori centri delle repubbliche caucasiche, è tutto sommato sotto controllo. Sul versante esterno, pur semi-isolato in Occidente a causa della crisi ucraina ancora irrisolta, Putin ha riportato Mosca protagonista e decisiva sulla scacchiera mediorientale ed ha intensificato i rapporti ad est con la Cina,non solo dal punto di vista economico, ma anche strategico.
C’è però un punto che in realtà può pesare molto sugli sviluppi, dal destino del presidente a quello dell’intero Paese: sarà l’andamento dell’economia a imprimere la direzione nella quale si muoverà la Russia nel prossimo futuro. Il sistema-Putin è nato e cresciuto dopo il decennio dell’anarchia postsovietica, il fallimento della transizione alla vera e libera economia di mercato, le privatizzazioni selvagge e il dominio dei robbers barons dietro le spalle di Boris Eltsin. Quella che è uscita sotto Putin, aiutato dalla crescita inarrestabile del prezzo del petrolio nel primo decennio al potere, è una Russia certamente più ordinata, stabile e ricca (e questo spiega ancora i rating stratosferici di Vladimir Vladimirovich che fanno impallidire il consenso medio che hanno i leader occidentali), ancora però affetta da patologie croniche.
Da un lato la corruzione (al 119esimo posto secondo Transparency International), dall’altro la dipendenza dell’economia dall’export di materie prime con circa la metà del Pil che deriva dalla vendita del petrolio all’estero.
Sono due le patologie croniche della Russia, che Putin non è riuscito a superare: la corruzione e la dipendenza dell’economia dall’export di materie prime
Evidente quindi che, soprattutto sul medio-lungo periodo, i prezzi bassi del greggio potranno dare qualche grattacapo a Putin o comunque al prossimo inquilino del Cremlino. Il Pil russo si è contratto nel 2015 del 3,7% e la ripresa non è prevista prima del 2017. Anche il 2016 dovrebbe chiudersi in negativo, molto però dipenderà appunto dal comportamento sui mercati dell’oro nero.
Sceso ai minimi storici intorno ai 25 dollari alla fine dello scorso anno, il prezzo del greggio si è ripreso salendo quasi sino a 40, ma l’altalena è continua e le previsioni difficili, tant’è che nemmeno gli analisti concordano e ovunque fioriscono gli scenari con più varianti. Quello della Banca mondiale prevede per quest’anno un prezzo sui 37 dollari al barile, che tutto sommato al Cremlino, dati i tempi e la prospettiva di altri tonfi, andrebbe più che bene.
All’inizio di marzo il governo russo guidato da Medvedev ha approvato un nuovo piano anti-crisi per 685 miliardi di rubli, destinati a tamponare le falle sul breve e medio periodo per migliorare soprattutto il clima e supportare alcuni settori industriali e regioni in difficoltà, così come rafforzare gli ammortizzatori sociali.
L’agenda per le nuove privatizzazioni, che coinvolge anche in giganti dell’industria petrolifera come Rosneft, sta andando a rilento e il fondo di riserva si è ridotto a circa 50 miliardi di euro. A questo si aggiungono le sanzioni occidentali per la guerra in Ucraina
Le difficoltà però non mancano: l’agenda per le nuove privatizzazioni, che coinvolge anche in giganti dell’industria petrolifera come Rosneft, sta andando a rilento e il fondo di riserva (creato da Putin una decina di anni fa proprio con il surplus dell’export petrolifero) si è ridotto a circa 50 miliardi di euro. A questo si aggiungono le sanzioni occidentali che all’inizio del 2016 sono state prolungate da Unione Europea e Stati Uniti per ulteriori sei mesi e che rischiano di diventare una telenovela pluriennale. La situazione in Ucraina è in stallo e gli accordi di Minsk sono bloccati con colpe da dividersi tra separatisti filorussi sostenuti da Mosca e governo di Kiev ormai allo sbando.
Ad essere colpiti, oltre alla Russia che non sembra però né fare tragedie né cambiare linea nel Donbass, sono alcuni settori dell’industria occidentale cui è stato precluso il mercato russo. Da questo vicolo cieco almeno l’Europa dovrà prima o poi uscire, facendo rilassare Vladimir Putin. La vera partita per il presidente russo si gioca comunque su un tavolo più ampio: alla Russia il prezzo del petrolio momentaneamente in minima risalita conviene, ma non è una garanzia di sopravvivenza sul lungo periodo. Le riforme radicali e la diversificazione tanto promesse e mai arrivate dovranno essere compiute.