Giulio Giorello: «Supersfortunato il paese che ha bisogno di supereroi»

Con Batman v Superman, Marvel e DC Comics hanno intrapreso una vera e propria guerra tra universi paralleli di supereroi. invadendo il mercato con i loro personaggi. Ne abbiamo parlato con Giulio Giorello, filosofo della scienza e grande appassionato di fumetti e supereroi

In un mondo perfetto i supereroi non dovrebbero servire a niente o, per citare il buon Bertold Brecht, potremmo dire “supersfortunato il paese che ha ancora bisogno di supereroi”. A parlare è Giulio Giorello, filosofo della scienza, matematico, che in questa veste, seduto a un tavolo di un celebre birrificio di Milano Est, sorseggiando una Montestella affronta una delle sue grandi passioni. No, in questo caso non è la storia della logica moderna. Non si parla di Gottlob Frege, Bertrand Russell o Kurt Gödel. Oggi si parla di supereroi, di Superman, Batman, dei Fantastici 4, di Spiderman.

«Il bisogno di inventare supereroi è la spia che qualcosa nel contesto abituale della società non funziona», continua Giorello. «E infatti cosa fanno i supereroi normalmente? Combattono i nemici della società, ci salvano da catastrofi naturali, dai terremoti alla rottura di una diga, o qualche altra volta risolvono addirittura affari di cuore, come leggiamo in qualche storia di Superman».

Superman è stato inventato nel 1933, Batman nel 1939. Sono quasi cento anni che vivono nel nostro immaginario. Come stanno oggi, sono invecchiati?
Io mi ricordo quando arrivarono in Italia. Il primo che ricordo io era all’inizio degli anni 50, quando ero piccolo io e si chiamava Nembo Kid, perché Superman ricordava troppo il superuomo, che Superman non era e non voleva essere.

Cosa è cambiato da allora?
All’epoca il mondo era più semplice e probabilmente era più facile determinare buoni e cattivi, adesso è più complicato. Quello che chiamavamo Nembo Kid era una creatura che, pur proveniente da un pianeta lontano, contribuiva a ricostruire la giustizia sociale e statale, diciamo che aveva delle pulsioni democratiche. Adesso qualcuno potrebbe pensare che i supereroi stiano diventando troppo esibizionisti. In ogni caso io ho sempre preferito altri tipi di supereroi a Superman.

Quanti tipi di supereroi esistono?
I supereroi non sono affatto tutti uguali. La loro superiorità, lo scarto che rappresentano rispetto alla normalità si muove lungo un asse di umanità/superumanità. Come poli opposti dell’asse possiamo prendere per esempio Superman e Batman. Superman è il supereroe alieno, che viene da un altro pianeta e ha poteri sovrumani. È praticamente un dio. Mentre Batman, al contrario, è soltanto un uomo, uno di quelli come me e come te, di quelli che se gli sparano muore, per intenderci. I suoi superpoteri sono quelli dell’ingegno, della tecnologia, della conoscenza. È un po’ la differenza che c’è tra Achille ed Ettore.

E quali preferisce?
Tra i due mi sta più simpatico Batman, perché è come Ettore. E diciamocelo, è difficile anche a vent’anni parteggiare per Achille, un semidio praticamente invulnerabile, che gioca mentre gli altri ci rischiano le penne. Ma quelli che preferisco più di tutti sono quelli che stanno in mezzo, potremmo chiamarli i “mutati”, il modello potrebbe essere Spiderman, ma per me i migliori sono i Fantastici 4.

Perché proprio i Fantastici 4?
Perché sono dei mutati e lo sono per colpa della scienza, anche se non hanno nei confronti di quest’ultima alcun livore, e anzi, alla fin fine ne sono anche contenti. La particolarità più interessante di questo tipo di supereroi è che la loro natura di uomini con dei superpoteri li porta ad affrontare situazioni problematiche e molto più complesse di un Superman o di un Batman. Nel mio libro La scienza tra le nuvole, che ho scritto per Cortina insieme a Pier Luigi Gaspa, un grande esperto di fumetti, uno sceneggiatore, traduttore e disegnatore, ho affrontato esattamente questa questione. I Fantastici 4 si pongono problemi morali, talvolta anche molto profondi filosoficamente. Mi ricordo una storia in cui il capo dei quattro, la mente pensante, Mr. Fantastic, viene processato perché si è rifiutato di uccidere un cattivo assai pernicioso. È una storia che comincia citando Einstein, ma non nel modo in cui possiamo aspettarcelo, in un modo un po’ diverso.

Come lo cita?
Parte dal fatto che Einstein ha detto che Dio non gioca con il mondo a dadi e, deducendo da ciò il fatto che non ci sia niente di casuale nel nostro mondo e che quindi qualunque cosa ha una sua collocazione, lo porta a pensare di essere anche lui parte del disegno, il che gli impedisce di influire sulla realtà, di modificarla perché è stata messo lì direttamente da Dio.

E a che conclusione arriva?
Ovviamente, pensando a queste cose, si fa scappare il cattivo e in maniera abbastanza rozza, la società si vendica.

Cosa significa questo episodio?
Che i Fantastici 4 pensano a quel che fanno, non sono soltanto muscoli e potenza, come invece erano i supereroi degli anni della seconda guerra mondiale, che erano molto più rozzi e monolitici, spesso anche più sadici e cattivi. Per esempio, per restare nel contesto di una narrazione di genere, anche se priva di eroi, forse è successa una cosa simile ai detective americani degli hard-boiled.

Ovvero?
All’inizio erano spietati contro il crimine — pensa al primo Dick Tracy — mentre poi si ammorbidiscono. Lo stesso Mike Hammer, per citare un superduro, negli ultimi romanzi di Mickey Spillane si è ammorbidito parecchio, diventando un po’ più sottile di quando uccideva le signore assassine in Ti ucciderò o di quando faceva fuori, tanto per tenersi in allenamento, una quarantina di comunisti in Tragica notte.Tornando ai Fantastici 4, mi piacciono molto anche perché hanno al loro interno il germe di una delle invenzioni narrative più interessanti della narrativa dei supereroi: la guerra civile.

Quali sono gli aspetti più interessanti della Civil War?
Prima di tutto è un’idea che nasce all’interno di un prodotto narrativo americano, ovvero di una cultura che di guerre civili se ne intende visto che il vero atto fondativo della democrazia americana è stata proprio una guerra civile. Basta vedere l’ultimo di Tarantino per ricordarselo. E proprio visto che di guerre civili se ne intendono, l’aver inventato uno scontro totale tra supereroi è aver fatto un passo avanti nella narrazione, rappresenta una spaccatura, frantuma un mondo. L’immagine che la evoca, e che è molto bella tra l’altro, è quella della cornice della fotografia delle nozze tra Reed Richards e Susan Storm, due dei Fantastici 4, che giace per terra in frantumi con la foto strappata a metà dopo un litigio tra i due.

Perché sceglie proprio quella immagine?
Perché c’è tutto quello che puoi immaginarti che sia una guerra civile. C’è la lacerazione e l’allontamento tra quelli che sono per la legge e l’ordine e che sono disposti a palesare i propri superpoteri, e quelli che invece vogliono rimanere nell’ombra; c’è lo scontro uomo donna e anche la polarizzazione del conflitto nella famiglia. Poi c’è il problema di libertà civili sottostante, della diversità, del rapporto pubblico privato.

Qual è il significato profondo di una guerra civile tra supereroi?
Vuol dire che non hanno più il compito di turare i buchi di una società in frantumi. Significa che si sono evoluti, che sono diventati personaggi complessi come il Galileo Galieli di Brecht, che hanno una doppia faccia. Nella Civil War questa doppia faccia si polarizza in uno scontro, quindi in due posizioni diverse, mentre in altre narrazioni più sofisticate sono i singoli che vivono una doppiezza interiore. Probabilmente è questo elemento di doppiezza e di complessità che mi fa amare i Fantastici 4, perché li apparenta al discorso scientifico, e non soltanto le scienze più evidenti come la biologia, la robotica e la fisica, ma anche alle scienze del comportamento, dalla psicologia alla sociologia. Per questo mi sono più simpatici, perché sono più sfumati, più dialettici, per dirla con Brecht, che in Dialoghi di profughi scrive “Non c’è cosa senza il suo contrario”, o ancora come diceva il buon Giordano Bruno: «Ogni virtù va valutata alla luce anche del proprio opposto». La doppiezza è il frutto di un pensiero più complesso, che va oltre la manichea divisione tra bene e male. Devo dire che però è un po’ che non leggo più da anni le storie di Superman, Batman e via dicendo, ma ho visto che anche loro hanno una loro guerra civile, quindi non posso escludere che questo livello di complessità sia arrivato anche a loro.

Facciamo un passo indietro, da dove nasce narrativamente il supereroe?
Nasce dall’eroe, chiaramente. E il concetto di eroe nasce probabilmente insieme all’uomo. I primi di cui abbiamo traccia sono però gli eroi del mondo mitico, non necessariamente greco, anche precedente. In molte tradizioni gli eroi sono anche più sfumati e contraddittori di quelli del mondo greco. Prendi lo stesso Gilgamesh, un grande eroe, che però è sia cattivo che buono, è un casinista, lotta contro gli dei quando gli dei trattano male l’umanità, o ancora è quello che cerca la pozione per la vita eterna e fallisce. È un eroe molto complesso ed elaborato. Ma anche gli eroi greci hanno una valenza duplice, o, talvolta, si contrastano a coppie, come la più famosa Apollo contro Dioniso, tanto cara a Federico Nietzsche. Anche lì però la dialettica tra i due non si risolve in un piatto manicheismo e alcuni tratti assassini che ci verrebbe da assegnare a Dioniso, dio dell’ebbrezza e dell’irruenza, scopriamo infine che li ha Apollo. È lui che tiene in mano il coltello insanguinato.

Le narrazioni popolari, dai fumetti alla letteratura al cinema, è riuscita a creare personaggi del genere?
Sì, credo che i fumetti popolari siano riusciti a fare qualcosa del genere, ma non con i supereroi.

Con cosa allora?
Questa visione ambigua c’è in fumetti “saldamente popolari” come li chiamo, e penso alla Walt Disney, che a volte è estremamente ambigua. Il carattere bifronte di Paperino, il carattere talvolta addirittura da criptofuorilegge di Topolino in alcune storie americane degli anni Trenta, di Gottfredson. O ancora, venendo a eroi più prettamente italiani, lo stesso Tex non è sempre così adamantino come sembra. Il concetto della giustizia che ha Tex è piuttosto “semplificato” e ogni tanto sbrigativo. Ma non solo, persino gli eroi tipicamente cattivi sono cattivi fino a un certo punto, Diabolik alla fine è un buono, Persino Satanik nasce cattiva, cattivissima, però alla fine diventa quasi una paladina delle legge e dell’ordine, quindi questa dialettica tra bene e male, tra buono e cattivo, tra virtù e vizio, in molti fumetti è molto più forte che nei fumetti di supereroi.

Esiste un tipo di eroe monolitico, senza macchia e senza paura?
Sì, certamente, ma ho la sensazione che sia minoritario. Esempi di questi eroi un po’ piatti ci sono nei romanzi cortesi, sono quei cavalieri erranti che hanno fatto impazzire il povero Don Chisciotte. Non ce ne sono tanti altri, persino gli eroi della Bibbia commettono gravi peccati: Davide, Mosé, Salomone anche in loro il bene e il male tante volte si mischiano.

Il romanticismo invece cosa ha cambiato nel modo di rappresentare gli eroi?
Ha mescolato molto i confini. Perché al contrario del mondo classico, in cui l’eroe virtuoso qualche volta fa delle cazzate,, l’eroe romantico è più facile che sia direttamente una carogna. Se consideri Stendhal un grande rappresentante del Romanticismo è difficile dire che è buono Fabrizio Del Dongo, o prendi anche l’antieroe de Il Rosso e il Nero. IN quel tipo di letteratura il discorso però è diverso, è nella narrativa popolare è più evidente la lotta dei buoni contro i cattivi. Pensa al malvagio dottor Moriartry, contro l’ottimo Sherlock Holmes. Seppur anche lì volendo si potrebbe leggere tra le righe Conan Doyle e se avessi ragione il dottor M, che era tra l’altro un grande matematico e dal cognome si intuisce l’origine da ribelle irlandese o simpatizzante tale.

Sentiamo la necessità, talvolta, di umanizzare i supereroi, perché?
Perché questi personaggi, seppur abbiano superpoteri, sono degli ideali da presentare ai lettori. E se ci metti qualche difettuccio l’identificazione del lettore avviene più facilmente. Ci somgiliano di più così che senza macchia né paura. Pensa all’Uomo Ragno, che all’inizio è un ragazzino sfigato un po’ secchione, trattato male dai compagni. Forse la tendenza a raccontare sempre di più il lato umano o anche solo le debolezze dei supereroi deriva da una stanchezza, che un po’ si percepisce, da parte degli americani verso gli eroi dal destino manifesto, tranquillizzante. Una stanchezza che ho la sensazione non riguardi soltanto questo tipo di narrazioni e mi permetto di dire che sarebbe proprio ora.

Dove nasce l’amore irrefrenabile della narrativa americana cinematografica per l’happy end e per il finale tranquillizzante?
Viene dalla loro storia. Gli americani sono riusciti a fare una rivoluzione in due tempi. Il primo tempo è stata la guerra di indipendenza contro gli inglesi, la seconda la guerra civile americana. Entrambe sono state drammatiche, sono costate tante vite e tanto sangue, perché contro gli inglesi non è stata da ridere, né tantomeno lo è stato la guerra civile. Ma alla fine hanno sempre prevalso i buoni, ovvero quelli che incarnavano i valori biblici: del Davide contro Golia, nel caso della ribellione contro gli inglese, e poi Giosué che abbatte le mura di Gerico, rifatto nei panni del generale Ulysses Grant che marcia su Richmond e la occupa. È raro che ci siano dei finali apertamente drammatici o in cui vincono i cattivi.

Perché invece nella narrativa letteraria le cose sono più sfumate?
Sì, è vero, ci sono tantissime eccezioni: mi viene in mente Fenymore Cooper con l’Ultimo dei Mohicani, che ha un finale profondamente pessimistico, o Melville, che hanno appena ritradotto, e che non si può certo dire che sia a lieto fine. E Falukner. Difficile trovare finali positivi in Faulkner. Ma anche nella narrativa cinematografica popolare americana ci sono tracce di questa cupezza forse in Sam Peckinpah, o in certi finali di John Ford, come il finale de L’uomo che uccise Liberty Valance, che è solo apparentemente a lieto fine. Una volta il lieto fine in America non te lo lasciavano girare.

Non come in Europa…
Eh no, il grande cinema italiano è pieno di grandissimi finali tristi, prendi La dolce vita di Fellini, gran parte del cinema di Antonioni, di Luchino Visconti. Il cinema americano non ha amato per molto tempo questo genere di finali. I finali di alcuni film sono stati influenzati in qeusto senso, mi viene in mente Orson Welles, ma anche un film come Blade Runner, il cui finale originale è decisamente più cupo.

Sia Marvel che DC Comics hanno annunciato una lunga lista di film tratti dai loro fumetti per i prossimi dieci anni quasi. Non rischiamo di stufarci?
Io sì, ma sa, io non faccio certo testo. Non sono io il pubblico di questi film. Ed è naturale, io continuo a preferire i vecchi fumetti popolari italiani, quelli con cui sono cresciuto. Dovrebbe dirmelo lei che rapporto ha il pubblico italiano di oggi con questo genere di narrazioni. È da quello che dipende tutto.

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