Il lavoro andrebbe abolito, altro che comunismo con il suo “Inno dei lavoratori”! Altro che falce e martello lì nel simbolo di un movimento che pretenda di lottare per l’emancipazione dai bisogni materiali. Intendiamoci però, ancor prima andrebbe abolito, cancellato dalla faccia della terra colui che, con volto convinto da vero responsabile, dovesse sostenere che il lavoro, “no, non lo si può davvero cancellare, perché altrimenti – parole sempre sue – dimmi tu come facciamo a mangiare, no, tu dimmelo, dai, avanti?”
Il giorno in cui avremo un decreto – meglio, Il Decreto – assai più erotico di quello firmato da Lenin per consegnare la terra ai contadini, un Decreto che sancisca l’abolizione del lavoro sarà davvero il caso di far precedere le parole del testo e le firme lì a certificarne la validità da un esercito di cheerleader in mutandine bianche bordate di rosso.
Avete presente il video di Gwen Stefani “Hollaback Girl”? Non quello ufficiale, no, quell’altro realizzato live in occasione del Teen Choice Awards 2005, dove c’è lei vestita da capitana della banda d’Affori di Venice che avanza con i ballerini ninja e i tamburi di Bruce Lee. Bene, il giorno che saremo riusciti ad abolire il lavoro la processione festosa e zampillante orgasmi multipli dovrà essere identica a quella che si mostra in quel videoclippo.
Ma adesso riavvolgiamo il nastro, tutti con gli occhi rivolti all’indietro. Perfino il genero di Karl Marx, Paul Lafargue, un quasi sosia del nostro sentimental-socialista Edmondo De Amicis, aveva cercato di spiegare il concetto di nocività del lavoro, certo, lo ha fatto partendo dalla questione dell’orario, ma anche del lavoro stesso, alienato, lo aveva fatto con un libricino intitolato “Il diritto alla pigrizia”, non certo un saggio politico concepito a favore della masturbazione, ma comunque già sulla buona strada; fra tutte le edizioni che siano mai state pubblicate del nostro saggio, la più significativa è certamente quella la cui copertina è opera di Wolinski, l’uomo comune è diventato il capitalista di se stesso su un’amaca, ovviamente si tratta di un’edizione in lingua francese, mica cinese. Laggiù milioni soccombono sotto l’involtino autunno del comunismo.
E se fosse vero che le ragioni di tutte le tragiche sconfitte della sinistra, comprese le apparenti improbabili vittorie, siano dipese dal non aver mai pensato che la parola d’ordine dovesse riguardare proprio l’abolizione del lavoro?
Anni fa mi è capitato di acquistare un volume che raccoglieva i simboli del potere della DDR, ossia la Germania dell’Est, quella comunista, la stessa che accoglieva tra le sue mura il drammaturgo Bertolt Brecht, per sua stessa ammissione un uomo devastato dalla pigrizia, se non dall’apatia, che lì siamo già nel patologico, tu non lo sai, ma Brecht usava l’auto anche per percorrere poche centinaia di metri, da casa, in Chausseestrasse, al Berliner Ensemble, il suo teatro; berretta in testa, Bert ingranava la prima, metteva lo stereo8 con le musiche di Kurt Weill, …tararattà tararattà, e via…
Ma stavo dicendo delle memorabilia della DDR: noi, figli delle stelle del capitale, cresciuti sotto il cielo di un’araldica composta di elmi e di spade, già, facciamo una certa fatica a comprendere che si possa invece inquartare dentro un simbolo nazionale la lanterna del minatore oppure, come è accaduto in Romania, il traliccio della luce, no?
Ora che ci rifletto, forse, ripensando a Giangiacomo Feltrinelli, editore e rivoluzionario, potremmo perfino, perché no?, rileggere la sua tragica fine in altro modo. Già, e se la sua scelta di abbattere con l’esplosivo quel traliccio di Segrate fosse in realtà un implicito rifiuto del mito comunista del lavoro con tutti i suoi annessi e connessi?
Ci pensi che il povero Dmitrij Šostakovič, pure lui, era sovente costretto a mettere archi e ottoni al servizio dell’elettrificazione dell’Urss? Sai che palle! Tornando però a Giangi, se così fosse, se davvero quel traliccio quel giorno del 1972, andrebbe riletta tutta la storia dell’eversione rossa, e slogan come “Po-te-re operaio! Po-te-re operaio…” tutta roba da buttare via, o comunque da rileggere.
Eppure c’era stato già un anarchico, Camillo Berneri, che aveva scritto un saggio intitolato “L’operaiolatria”, dove provava a spiegare che, forse, tutta questa apologia del sudore della fronte non andava così bene, non era poi così salutare e neppure salubre. Ma abbandoniamo il tempo piovoso in bianco e nero del “su fratelli, su compagne, / tutti i poveri son servi: / cogli ignavi e coi protervi / il transigere è viltà. Il riscatto del lavoro / dei suoi figli opra sarà: o vivremo del lavoro / o pugnando si morrà. o vivremo del lavoro / o pugnando pugnando si morrà. O vivremo del lavoro / o pugnando si morrà”, ossia dell’Inno del lavoratori.
Dai, torniamo a Gwen Stefani che avanza con il suo stantuffo pelvico, meravigliosa catastrofe bionda, lievito biondo di promessa erotica in un immenso letto tra le nuvole, torniamo con le parole dei situazionisti a pensare che il lavoro, sì, si può abolire. E le seconde-terze generazioni degli iuppi non fanno orrore di meno.