Dis-Union Jack: l’Inghilterra divisa il giorno del voto

Giovani contro anziani, periferia contro centro. Giornata di referendum in Gran Bretagna, mentre i sondaggi danno i due fronti alla pari

«Nelle settimane precedenti, li avremo visti due o forse tre volte. Adesso si sono dati una mossa anche loro, quelli che vogliono rimanere nell’Unione Europea. Fino a poche settimane fa non avevo dubbi che a vincere saremmo stati noi, ma ora non me la sento di fare un pronostico». David Johnson è un anziano signore che un tempo lavorava in finanza e ora è consigliere municipale di Havering, estrema periferia orientale di Londra. Non un luogo memorabile per un turista, interessante però di questi tempi, perché Havering è l’area più euroscettica dell’Inghilterra. Johnson è uno di quelli che stanno facendo campagna senza sosta per l’uscita dall’Unione Europea: si fermerà solo quando stanotte si chiuderanno i seggi del referendum, alle 22 (le 23 ora italiana).

Al mercato di Romford, Johnson distribuisce volantini e spillette per il Leave. Non una gran fatica, visto che in molte bancarelle accanto ai prezzi della merce sono esposti gli stessi slogan pro-Brexit. «Vogliamo decidere del nostro futuro – sentenzia uno degli ambulanti che vende cinture di pelle rigorosamente Made in Uk -, non farci dire da altri quello che dobbiamo fare o chi dobbiamo fare entrare in casa nostra. Poi continueremo a essere amici degli altri popoli, eh».
Più difficile da queste parti lo sforzo, invece, per quelli quelli che «si sono dati una mossa». Gli europeisti, quelli del Remain, che sostengono che «chiudere le frontiere è solo razzismo e ci riporterà al passato». I pro-Europa in una settimana, dopo l’omicidio della deputata laburista Jo Cox e uno stop forzato della campagna referendaria, sono però risaliti nei sondaggi a livello generale. I due fronti, all’apertura delle urne questa mattina sono sostanzialmente alla pari, anche se le rilevazioni non sono univoche.

Per strada, abituati alle campagne elettorali italiane, l’invisibilità di quella inglese è quasi sconcertante. Pochissimi manifesti e volantinaggi mirati. Molti porta a porta per convincere gli indecisi (che secondo i sondaggi sono fra il 10 e il 15%), ma senza portarsi dietro le telecamere

Per strada, abituati alle campagne elettorali italiane, l’invisibilità di quella inglese è quasi sconcertante. Pochissimi manifesti e volantinaggi mirati. Molti porta a porta per convincere gli indecisi (che secondo i sondaggi sono fra il 10 e il 15%), ma senza portarsi dietro le telecamere. «Si deciderà all’ultimo voto», conferma Johnson, un passato nel partito Conservatore, poi trasferitosi nell’Ukip, deluso dalle posizioni morbide degli eredi di Margaret Thatcher verso l’Ue. «Una più bassa affluenza – osserva – potrebbe favorire noi. Perché noi siamo quelli più appassionati, più mobilitati per votare sì. Ma da qualche giorno qualcosa è cambiati».

Non si pensi però che l’Europa sia l’unico oggetto del contendere. Come in Italia, le istituzioni di Bruxelles sono diventate la scusa per discutere anche di altro che non funziona. In Gran Bretagna ci sono in queste settimane due modelli di società che si confrontano. Gli attivisti pro-Brexit sono in prevalenza più anziani, vivono in aree periferiche e rappresentano quella middle-class che ha perso ruolo sociale. Vogliono regole più stringenti sull’immigrazione e maggiore sovranità nazionale. Gli attivisti pro-Ue sono in prevalenza più giovani, cosmopoliti e abituati a vivere nei flussi della globalizzazione. Chiedono che non si torni indietro, anche se ritengono che il progetto europeo vada riformato. Steve arriva dal Kent, raccoglie fondi per la ricerca in mezzo alla strada. «Non mi piace l’Unione Europea, non mi piace che si diano sussidi a tutti. Però mio figlio, che ha vent’anni – riflette ad alta voce – la pensa diversamente, perché ha studiato a Barcellona proprio grazie alla mobilità europea. E ha pure una fidanzata di là… Non riesco a convincerlo».

Poche ore ancora per sapere se avrà avuto più ragioni Steve o ne avrà avute di più suo figlio. Ai seggi saranno chiamati i cittadini britannici, irlandesi e dei Paesi del Commonwealth residenti nel Regno Unito. Non quelli originari di altri Paesi Ue, che avrebbero potuto fare la differenza. «Per la comunità italiana che vive stabilmente a Londra – spiega padre Francesco Buttazzo, della missione scalabriniana di Brixton road , dove si celebra messa per gli italiani, i portoghesi e i filippini – non cambierà nulla anche in caso di Brexit. La chiesa d’Inghilterra si è già espressa contro questa prospettiva. Però vedo che ai nostri parrocchiani filippini non dispiacerebbe l’uscita della Gran Bretagna dall’Ue, perché a quel punto verrebbero messi sullo stesso piano degli immigrati europei. Loro come molti altri».

Comunque vada a finire, questo referendum ha segnato una richiesta di maggiore ascolto e maggiore potere di interventi da parte degli elettori. Da una parte e dall’altra. La chiusura della campagna referendaria ieri ha visto impegnati tutti i leader politici britannici. Il premier conservatore David Cameron ha tenuto un comizio per il Remain insieme a Gordon Brown, il primo ministro laburista che battè nel 2010. Mattatori nelle stesse ore ma su palchi diversi i leader emergenti pro-Brexit, che hanno ambizioni di governo: l’ex sindaco conservatore di Londra, Boris Johnson, il ministro della Giustizia, Michael Gove, e il leader dell’Ukip, Nigel Farage, quello che da vent’anni attende questo momento. «Questo – è stata la sua sintesi efficace – sarà un voto del popolo contro l’establishment». Parole che piaceranno molto al suo alleato italiano Beppe Grillo.

Twitter: @ilbrontolo

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