Quando esce un libro sullo sport, magari l’autobiografia di un campione o la storia di una squadra – tipo, qualcuno farà uscire un bel volumone sul Leicester, credo – le cose sono molto semplici: è un libro di sport. Se c’è Magic Johnson è sulla pallacanestro, se c’è Roberto Pruzzo sulla Roma, se c’è Ibra su the king who became legend, e così via. Poi però esiste tutto un altro filone di libri che sembrano parlare di sport ma in realtà raccontano altro, e lo sport, in quei casi, è una cornice, una propedeutica e, al massimo, una nota di colore che allarga di un pochino lo spettro di lettori potenziali (c’è il basket, figata, lo compro).
Ecco, a pensarci magari le cose non stanno esattamente così; o, meglio, esiste anche un rovescio di questa medaglia, e visto che viene più semplice usare la pallacanestro per spiegarsi, useremo la pallacanestro per spiegarci. Nello specifico attraverso due libri, usciti a un anno di distanza l’uno dall’altro: Masnago di Giovanni Fiorina e Ventiquattro secondi di Simone Marcuzzi.
Ogni recensione, ogni presentazione e qualsiasi discorso attorno a questi due libri mette l’accento su un ribaltamento: ecco un libro che usa il basket per parlare di qualcos’altro. Tutto molto vero, tutto molto originale, tutto molto una bella intuizione. Ma forse la cosa funziona anche all’incontrario, ed ecco un libro che usa qualcos’altro per parlare di basket. Per parlare della struttura del basket. Ma andiamo con ordine e parliamo di panteismo.
Gli dèi del basket esistono, esistono eccome. Chi guarda la pallacanestro con costanza e interesse, in fondo in fondo ci crede. Perché, come dice l’indimenticabile Rasheed Wallace, per sempre nei nostri cuori:
Ball don’t lie. La palla non mente. Nel video qui sopra si capisce bene il senso laico e spirituale di questa formuletta, che Sheed ripete ogni volta che può, anche da assistente allenatore; la scena va così: l’arbitro fischia un fallo tecnico a Wallace, che non è d’accordo. Goran Dragic va in lunetta e sbaglia il tiro libero, e Sheed gli urla proprio ball don’t lie, prima di essere definitivamente espulso dal campo. La palla non mente. Il fallo tecnico non c’era e infatti Dragic sbaglia il tiro libero conseguente. Se avesse segnato il tiro libero, in qualche modo sarebbe stata un’ingiustizia.
Sembra una minchiata detta così ma, oh, succede praticamente sempre. La Giustizia è un valore tangibile nella pallacanestro. Il gioco, di per sé, ha una sua struttura interna che, come l’enciclopedia di Eco o il rizoma di Deleuze, è allo stesso tempo potenziale e attualizzata: potenziale perché è a partire dalle regole che si articola il gioco, attualizzata perché il gioco è venuto prima e gli esseri umani lo hanno imbrigliato – ma viene meglio dire assecondato – dandogli delle regole, le stesse regole che, in qualche modo, il gioco stesso richiedeva.
E allora se fai per bene, se rispetti il gioco, se non lucri su un misero tiro libero, se assecondi la struttura, allora fai canestro. Altrimenti lo sbagli, e non c’è nulla da fare. E questa, mi pare, è una cosa davvero meravigliosa, una parabola che, oltre a essere parabola, è anche verità letterale. Ecco perché gli dei della pallacanestro sono sia laici che spirituali, sia potenziali che attuali, sia buoni che vendicativi. E questi apparenti contrasti non si elidono ma si integrano, sfaccettando il discorso in maniera talmente prismatica da impedirci, di fatto, di sostenere semplicemente che un libro possa usare il basket per parlare di qualcos’altro, perché il basket pare un microcosmo intatto, un luogo dove vigono le regole degli uomini e del mondo, un frattale non tanto della vita quanto di come la vita dovrebbe essere per definirsi tale.
Ecco perché Masnago e Ventiquattro secondi funzionano nella misura in cui vengono alimentati dalla tensione di un doppio scambio, il basket per parlare della vita, la vita per parlare del basket; il rovescio della pallacanestro.