Il nuovo operaio indossa un caschetto per la realtà virtuale e dei guanti tattili. Guarda un grande schermo dove trova un macchinario al 100% identico a quello che dovrà comandare, controllare e riparare durante il suo lavoro. Girando i guanti ruota il macchinario, fa una zoomata. Sposta con un gesto una copertura che nella realtà sarà di acciaio. Svita un paio di bulloni e individua il pezzo da cambiare. Ora la macchina funziona. Se vi sembra un’immagine futuribile vi sbagliate. Già oggi esistono centri di formazione virtuali, che preparano gli operai in un ruolo che sempre più competerà loro: controllare, settare e mantenere decine di macchine, che nel frattempo mandano sempre più informazioni riguardo al loro stato di usura e alle loro performance. Uno di questi centri è curato dalla società Quanta. Michele Toniolo. responsabile della divisione Engineered Products della società, ne ha parlato in un convegno alla Sps di Parma, la fiera dell’automazione industriale organizzata da Messe Frankfurt, che si è tenuta dal 24 al 26 maggio scorsi (28mila visitatori, +22% rispetto all’anno scorso, e 674 espositori, +11%). «L’industria 4.0 è un’opportunità di creazione di posti di lavoro, a patto però di passare da una nuova formazione – racconta -. Nei nostri centri gli operai sono formati attraverso un “virtual training” che permette loro di capire il funzionamento di 150 macchine, semplicemente stando dentro una vitual room. Si tratta di strumenti che un percorso scolastico tradizionale non è in grado di fornire, perché gli investimenti sono elevati». La società, aggiunge, ha 25 centri in Italia e altri tra Brasile, Usa, Spagna, Svizzera e Romania.
«L’industria 4.0 è un’opportunità di creazione di posti di lavoro, a patto però di passare da una nuova formazione. Nei nostri centri gli operai sono formati attraverso un “virtual training” che permette loro di capire il funzionamento di 150 macchine»
Nella fiera di Parma una società ha anche fornito una dimostrazione di come questo avvenga. La Design Systems di Lainate, alle porte di Milano, ha dato la possibilità a chiunque fosse interessato di provare una di queste stanze di addestramento virtuale. Si indossano occhiali in 3D, con dei sensori di movimento. In alternativa, si possono utilizzare gli occhiali Oculus (una delle forme di visori sul commercio, in questo caso di Samsung), meno performanti, oppure i più immersivi caschetti. Per i movimenti delle mani l’alternativa è rappresentata da un joystick o dai guanti tattili. «La tecnologia ha tre scopi: innanzitutto serve per progettare – dice uno dei responsabili della società , Stefano Garegnani -. Poi ha una funzione di marketing, perché permette alle aziende di portare nelle fiere molti meno modelli o nessun modello, mostrandoli virtualmente. Infine è usato per i corsi di formazione del personale. Gli operai passano prima da noi, per comprendere le sequenze degli interventi di manutenzione».
Quanto stia avanzando velocemente l’applicazione nelle fabbriche di questi strumenti lo ha chiarito Luigi Lugaro, Plm Corporate Project Manager di Alstom. «Abbiamo prodotto il primo treno solo virtualmente, eliminando i prototipi fisici. Questo ci permette di produrre un nuovo treno in 18 mesi». Una strada, quella simulazione virtuale, che era stata seguita in tempi non sospetti dalla Dallara Automobili. «Ci dicevano che non era possibile realizzare il simulatore che avevamo in testa – racconta Alessandro Berzolla, Chief Operation Officer della società -. Abbiamo allora preso una serie di ingegneri neolaureati, dicendo loro che era tutto perfettamente realizzabile. Dopo un anno avevamo la tecnologia necessaria».
Il sistema di realtà virtuale della Design Systems è stato uno dei 25 esempi delle nuove applicazioni tecnologiche presentate nella mostra Know How 4.0. Curata dal professor Giambattista Gruosso, docente di elettronica e automazione al Politecnico di Milano, è la prima nel suo genere ha avuto soprattutto due obiettivi: informare sulla direzione e lo scenario dell’innovazione delle tecnologie industriali e togliere l’ansia alle imprese italiane. Come sta emergendo dai sondaggi le imprese vedono nell’Industria 4.0 un’opportunità ma anche anche qualcosa di difficile da raggiungere. Il fatto è che nella definizione di Industria 4.0 rientrano molti concetti: l’introduzione dell’Internet delle cose nei processi industriali. L’utilizzo dei big data, della realtà aumentata e delle stampanti 3D. Ma anche la digitalizzazione dei processi e con la comunicazione tra macchinari dentro una fabbrica e tra gli attori della filiera. Non è necessario avere tutti questi strumenti in un’azienda, ma è necessario capire come ciascuno di questi aspetti comporti dei vantaggi e in quali condizioni. «Abbiamo voluto togliere la parola “Industria” per far capire che l’ambito di applicazione di queste tecnologie può essere più ampio», ha spiegato Gruosso, che dal prossimo anno curerà il primo master dedicato a queste tematiche, al Politecnico di Milano, chiamato “Progettazione dell’innovazione e digitalizzazione per le macchine automatiche e i beni strumentali”.
«Abbiamo voluto togliere la parola “Industria” per far capire che l’ambito di applicazione di queste tecnologie può essere più ampio»
Nella mostra c’erano, anzitutto, i nuovi macchinari. La Pilz ha mostrato di che si parli quando si parla di “sistemi modulari e intelligenti che creano dei prodotti personalizzati in modo flessibile”: un piccolo sistema, a scopo dimostrativo, incideva il nome su penne e porta biglietti da visita. La particolarità era che un sistema di controllo distribuito coordinava l’esecuzione di tutte le attività attraverso componenti collegati in rete. È così, spiegano i curatori, che si riesce, ragionando in grande, a realizzare la produzione di prodotti su misura in lotti sempre più piccoli. Poi è stato il turno di mostrare che significa che due macchinari “dialogano tra loro”. Un’installazione della Yaskawa prevedeva un’isola di saldatura, con due macchinari interessati per saldare e uno per spostare le lamiere. Tutto il processo prevedeva una raccolta di dati, per poter intervenire in caso di disallineamento. «In precedenza queste operazioni sarebbero state in carico a una persona», spiega Gruosso. Altre dimostrazioni hanno riguardato di robot, come i due della Klain Robotics (con sensori Denso): nella dimostrazione, uno raccoglieva dei brillantini di Swarovski da un piattino e li incollava su un braccialetto che veniva fatto ruotare da un altro robot. Semplice? No, perché tutto è basato su complessi sistemi di visione, comunicazione e sincronizzazione tra i due bracci meccanici. All’opera è stato mostrato anche un braccio robotico italiano, con un design particolarmente curato. Lo messo a punto la Comau, assieme a B&R, Datalogic e altre società. Tra i bracci robotici faceva la sua scena quello messo a punto da Kuka Roboter (assieme al software Siemens): non tanto e non solo per la programmazione da remoto, ma perché era in grado di produrre una vera scultura, in legno: una rappresentazione del braccio meccanico, praticamente un autoritratto. Tra i macchinari c’è stata anche la presenza di un cobot, o robot collaborativo. È quello della Bosch, che si distingue per avere dei sensori sull’imbottitura in pelle a copertura del braccio meccanico. La particolarità, spiegano dalla Bosch, è che permette di arrivare a più stretto contatto con il corpo degli operai, a circa 2 centimetri.
Tra i produttori italiani di software non si vedono giganti, ma alcuni sviluppatori estremamente competitivi sulle nicchie su cui operano. Un esempio? La Nice di Asti, che si occupa di simulazioni coordinate di operazioni industriali. Talmente efficace che se n’è accorta anche Amazon, che qualche mese fa l’ha acquistata
Al di là di macchinari e della dimostrazione di questi si possano monitorare e gestire a distanza da un semplice pc o tablet (notevole la dimostrazione in questo senso di Camozzi Group), la parte dedicata ai software era particolarmente estesa: la plastica rappresentazione di quanto la parte informatica sia diventata centrale all’interno delle fabbriche. A partire dall’automotive, dove è recente l’accordo tra Google e Fca per i test su un centinaio di auto a guida autonoma, e dove la condizione imposta da Google è stata di poter detenere la proprietà dei dati che saranno raccolti nei test. Gm si era opposta a questa operazione, facendo saltare l’accordo con Google pare proprio su questo aspetto. «Google ha intrapreso un percorso per passare dall’essere il primo player nell’analisi dei dati su internet a uno dei primi player globali nell’analisi di dati generati da tutte le cose che ci circondano», dice Giulio Destri, docente all’Università di Parma e membro della Consulta regionale degli ordini degli ingegneri della Lombardia Lo scopo del gigante di Mountain View? «Arrivare a veicolare delle pubblicità mirate a chi è alla guida», commenta. Tra i produttori italiani di software non si vedono giganti, ma alcuni sviluppatori estremamente competitivi sulle nicchie su cui operano. Un esempio? La Nice di Asti, che si occupa di simulazioni coordinate di operazioni industriali. Talmente efficace che se n’è accorta anche Amazon, che qualche mese fa l’ha acquistata.