Da Narcos a Gomorra, ecco perché bisogna sempre raccontare il male

«La fascinazione per il male è insuperabile», dice Gian Guido Nobili, responsabile delle politiche per la sicurezza della Regione Emilia-Romagna. «Dimenticare quelle dinamiche e cancellarne la narrazione però è un rischio ancora peggiore»

Gian Guido Nobili è il responsabile delle politiche per la sicurezza e per la legalità della Regione Emilia Romagna, ma in qualche modo si porta il lavoro a casa. Per lavoro si occupa di ricerca e di politiche di prevenzione sulla sicurezza urbana,all’interno dell’attività del Forum per la sicurezza urbana, la sezione italiana di una rete che in Europa mette insieme più di 250 città realtà, da Parigi a Barcellona, da Roma a Milano, dalla Catalogna all’Emilia Romagna.

Nel frattempo, sempre per lavoro, viaggia, soprattutto verso l’America Latina. Ed è proprio viaggiando e vivendo all’estero — per tanti anni a Caracas, in Venezuela, poi per qualche periodo a Medellin, in Colombia — che si è appassionato della storia criminale di quei paesi. Soprattutto la Colombia. Pablo Escobar, in particolare. Lo abbiamo incontrato a Riccione, durante i giorni del DIG, il festival del giornalismo d’inchiesta tenutosi tra il 23 e il 26 giugno scorsi.

In Europa il tema della sicurezza è centrale, soprattutto in questo periodo storico dominato dalla crisi economica e dall’incertezza. Cosa ci può insegnare il Sud America e le sue storie criminali su come si gestisce – o non si gestisce – la sicurezza nelle nostre città?
La tua domanda è molto pertinente, anche se in questi anni il compito che mi era stato dato, facendo tesoro dell’esperienza accumulata in Europa, era stato esattamente il contrario.

Qual era il suo compito?
Dovevo portare l’esperienza delle politiche europee di prevenzione in America Latina.

Ma?
Ma se hai lavorato in quei paesi, se ci passi un po’ di tempo, hai subito l’impressione che siano proprio quei paesi ad avere tanto da insegnare a noi, soprattutto a un paese come l’Italia, che ha una storia criminale con storie drammatiche di vita criminale che sono forse le uniche, almeno in Europa, ad essere assimilabili a quelle colombiane o messicane. E, tra tutte le storie, sono in particolare due quelle di cui ci troviamo ultimamente a parlare: la storia di Pablo Escobar e quella del Chapo Guzman.

Come mai ancora Pablo Escobar, a più di vent’anni dalla sua morte?
Il grande successo della storia di Pablo Escobar, che per la maggior parte dei telespettatori ha coinciso con l’arrivo della serie di Netflix Narcos, in realtà è partito con il successo, ancora più ampio, riscosso da una serie precedente a quella di Netflix.

Di che serie si tratta?
Di una serie prodotta dalla colombiana Caracol Televisión nel 2012. Si intitola El patron del mal, propone in oltre 100 episodi la storia, molto dettagliata, di Pablo Escobar e ha avuto un successo veramente strepitoso in tutta l’America Latina.

Perché Escobar ci interessa così tanto?
La storia di Escobar è interessante perché per molti aspetti avvicina l’esperienza colombiana a quella italiana. Per esempio, il tentativo, nella prima fase della sua carriera criminale, di avere una interlocuzione politica, addirittura di entrare lui stesso nell’arena politica in prima persona. Cosa che gli riesce, peraltro, visto che viene eletto come sostituto rappresentante alla Camera, una scelta che sarà decisiva per la sua biografia futura.

Perché?
Perché informati della presenza di Pablo Escobar, i leader del nuovo liberalismo, che in un certo senso lo avevano coinvolto nell’attività politica — Sarmiento e Bonilla — decidono di espellere Ortega ed Escobar dal movimento del nuovo liberalismo, espulsione che creerà l’alleanza tragica con il partito liberale con Botero, che avvicinerà Escobar ad entrare in Congresso. Una scelta che facilitò l’accumulo di capitali inimmaginabili anche per paesi latinoamericani. Ma la cosa affascinante — e mi ha fatto piacere poterne parlare in un festival come questo del giornalismo di inchiesta — è che queste storie non sono emerse, né sono state raccontate grazie all’attività di indagine della polizia.

Chi c’è dietro al ricostruzione della sua vita criminale?
Grazie all’attività di un giornale, il più importante colombiano, che ha avuto la forza e la capacità di capire da dove provenissero questi enormi capitali di Pablo Escobar, ritrovando in archivi della polizia delle foto segnaletiche di un suo arresto per droga. Giusto un paio d’anni prima, lo stesso Escobar era stato dipinto da altre fonti giornalistiche come una sorta di Robin Hood, il che ci dice tanto sulla rete di coperture e di sostegno da parte della comunità che Escobar ebbe fino alla fine della sua vita.

Da dove veniva questo sostegno?
Escobar ha creato un vero e proprio movimento politico. Si chiamava Civismo in marcia, attraverso il quale è intervenuto nelle zone più povere delle città in quelle forme tipiche del populismo latinoamericano.

Ovvero?
Costruendo campi da calcio, illuminazioni, offrendo delle alternative e delle speranze al sottoproletariato urbano della provincia di Antiochia. Questo ci fa capire come sia possibile che, dopo oltre vent’anni dalla sua morte ci sia ancora un quartiere che è dedicato a lui e che si chiama proprio Pablo Escobar. E pensa, sono i resistenti che protestano per tenere quel nome; in quel quartiere c’è gente che ha ancora il suo santino in casa. Tutto ciò rende Escobar un personaggio molto più complicato di quello che sembra, un uomo che sognava addirittura — come mi ha raccontato gente che lo ha conosciuto bene — di diventare Presidente.

Perché non ce l’ha fatta?
Aveva i capitali per poterlo fare, quello che forse ha sottovalutato è stato il fatto che l’oligarchia colombiana non gli ha mai perdonato la sua potenziale minaccia per l’ordine sociale colombiano, un ordine che le oligarchie non avevano alcuna voglia di veder mutare. Molti affaristi colombiani hanno fatto affari con Escobar, riciclando, investendo e moltiplicando i loro capitali. Quando Pablo Escobar ha cercato di entrare nel loro circolo sociale, l’establishment ha reagito molto violentemente. Era troppo pericoloso se fosse arrivato al loro livello.

Passando dalla realtà alla rappresentazione della realtà, cosa ne pensa dell’attenzione mediatica e narrativa che stanno vivendo le storie criminali, da Narcos a Marseille, da Gomorra a Suburra. Ritiene che ci sia il pericolo di indurre una sorta di fascinazione nel pubblico o che sia importante parlarne per affrontare quei temi pubblicamente?
È un discorso molto complesso. L’esperienza di Netflix con Narcos è partita nel 2015 con la produzione e dalla distribuzione della prima stagione. In raltà come abbiamo già detto, questo discorso è antecedente, perché il successo di Narcos nasce dall’enorme successo che aveva avuto in tutta l’America Latina el Patron del mal. Era una serie incredibile: preparata coinvolgendo i parenti delle famiglie delle vittime di Escobar, quindi con un’attenzione molto forte a non rappresentare in maniera celebrativa la figura di Escobar e del cartello di Medellin. Nonostante questo, alla fine la gran parte degli spettatori si immedesima o addirittura creano gruppi su Facebook idolatrando alcuni dei sicari che la serie aveva portato alla ribalta rispetto alle figure marginali che erano nella realtà.

Per esempio?
L’esempio più importante che mi viene in mente è la figura di Jairo Arias Tascon Pinina, detto El Chili, interpretato da un attore bravo e bello che ha fatto aumentare la simpatia di giovani e giovanissimi per uno dei più importanti sicario di Escobar. Ci sono decine di migliaia di ragazzi in America Latina i cui immaginari sono stati conquistati da queste figure. È anche vero, però, che questo successo deve insegnare una cosa sia a noi istituzioni che ai giornalisti: non dobbiamo temere di raccontare il male. Dobbiamo essere in grado, nonostante la potenza che hanno queste narrazioni seriali, di contestualizzarle, di saperle raccontare, magari portando questi prodotti a eventi, festival, ma magari anche nelle scuole.

Cosa ne pensa del rischio della fascinazione?
Il rischio c’è. E non potrà mai essere eliminato. Perché la fascinazione per il male, lo dicono gli psicologi, è in fondo insuperabile. Tuttavia, dimenticare quelle dinamiche o fare finta che non siano esistite cancellandone anche la narrazione, credo che sia un rischio ancora peggiore. Perché in realtà, se alle persone riesci a dare gli strumenti per interpretare quelle storie, riesci anche a capire molto meglio perché e come quei mostri si sono prodotti. E, in questo, la debolezza delle istituzioni messicane e colombiane di fronte a questi fenomeni, per tornare alla domanda iniziale, ci deve insegnare tantissimo. Perché indebolire le istituzioni e indebolire le iniziative reali per contrastare criminalità emarginazione e violenza — iniziative anche come questo festival — è molto pericoloso. Perché l’insicurezza trova terreno fertile nei vuoti del tessuto sociale, vuoti che vengono riempiti da eventi come il DIG e come tutti i festival ed eventi culturali che si organizzano sul territorio, eventi culturali che valgono più di cento telecamere.

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