Dal burkini alle banche: se chi è di destra si scopre di sinistra, e viceversa

Il costume da bagno islamicamente corretto è solo una delle cose su cui, ormai, ci dividiamo per pura appartenenza ideologica. Specchio di un paese in cui trionfano le (vecchie) ideologie, mentre i contenuti soccombono

La controversia sul burkini non è interessante per il tema in sé – risolvibile in poche parole: reprimere comportamenti simbolici ma innocui per educare i cittadini a valori altri da quelli che il simbolo proibito sottende è distintivo dello stato etico, o totalitario, ed ha sempre e solo condotto ad effetti opposti ai desiderati – quanto per ciò che rivela, sul piano culturale ed antropologico, dell’opinione pubblica italiana e delle modalità attraverso cui l’antica “cultura” italiana della divisione in bande armate guelfe/ghibelline continui ad avere un effetto disastroso sull’evolversi della nostra vita politica e sociale. Su questo mi vorrei soffermare.

Le pur significative eccezioni non cambiano la verità della seguente constatazione riguardo alla media della popolazione. È un dato di fatto che, oramai, nell’immaginario collettivo italiano essere musulmano equivale a essere un immigrante ostile alla civiltà occidentale e favorevole, in un modo o nell’altro, al terrorismo di marca jihadista. Si dà anche il fatto che accettare gli immigranti è attività che pertiene al “buonismo di sinistra” il quale li vuole salvare convertendoli ai valori occidentali, in primis la socialdemocrazia. Rigettarli invece – perché inconvertibili: come m’ha spiegato iersera a cena una gentile signora siciliana d’antiche origini saracene, ce l’hanno nel DNA l’incompatibilità con “noi” … – è attività di destra tesa a difendere la “nostra” identità culturale dalla minaccia musulmana. Ne consegue che proibire un capo di abbigliamento gradito ai musulmani è cosa di destra che difende i valori della civiltà occidentale mentre opporsi a tale proibizione permettendo l’uso in luoghi pubblici del suddetto capo di abbigliamento è di sinistra perché ne favorisce l’integrazione.

Una riforma istituzionale che realizza alcuni degli eterni desiderata della destra italiana è violentemente osteggiata da chiunque si senta di destra

Di conseguenza, la grande maggioranza di coloro che si sentono di destra hanno prodotto dozzine di interessanti argomenti per appoggiare la linea del Primo Ministro francese (e socialista) Valls mentre la stragrande maggioranza di coloro i quali si ritengono di sinistra ha prodotto argomentazioni per opporsi alla medesima ed appoggiare l’orientamento espresso dal Ministro degli Interni italiano (e di centro-destra) Alfano.

Ho trovato affascinante leggere lunghi pistolotti di signori/e “liberali tutta la vita” che argomentavano, con frasi degne d’un apologeta sessantottino delle comuni cinesi, sulla necessità di educare le donne di religione musulmana ad emanciparsi e liberarsi dall’oppressione maschile anche attraverso restrizioni legali sui comportamenti ammissibili. Viceversa, è stato bello leggere, per mano di antichi teorici de “la società viene prima dell’individuo isolato ed egoistico”, come la libertà personale sia inviolabile ed il diritto alla privacy (che si manifesta anche nella scelta dell’abbigliamento) un irrinunciabile valore. Sia chiaro, nel caso specifico credo sia provabile che alcuni di questi argomenti reggono lo scrutinio di fatti e raziocinio mentre altri sono pure balle e contorsioni logiche. Ma non è questo il punto che qui m’interessa, quanto sottolineare l’incoerenza intellettuale che li sottende.

Non è questo un caso isolato ma solo il più recente e ridicolo: con le dovute eccezioni, le prese di posizione sul referendum istituzionale d’autunno soffrono della medesima patologia. Una riforma istituzionale che realizza alcuni (a mio avviso non desiderabili e comunque orrendamente implementati, ma fa nulla) degli eterni desiderata della destra italiana è violentemente osteggiata da chiunque si senta di destra perché approvata dalla maggioranza di centro-sinistra … e viceversa.
Potremmo continuare osservando quanto accade nel dibattito sulle banche (dove una buona fetta di teorici del mercato si sono scoperti all’improvviso preoccupati per i destini dei poveri obbligazionisti) o sul sistema pensionistico (dov’è finita la destra “liberale” che voleva ridurre i trasferimenti parassitici e la sinistra che voleva ridare reddito ai giovani?) ma, credo che questi esempi bastino a rendere esplicito il punto: la discussione pubblica su temi di grandissima levatura avviene secondo le modalità dell’interesse politico-ideologico di parte e mai, o quasi mai, sulla base delle implicazioni concrete e delle motivazioni reali dei provvedimenti in questione.

È questo ossessivo dividersi per tribù politiche – ignorando beatamente la coerenza delle argomentazioni sottostanti – che m’è sembrato il fatto maggiormente degno di nota in questa ennesima ed inutile lite estiva, perché sottolinea in modo plateale una modalità antica del “fare politica e cultura” in Italia, modalità purtroppo causa di gravissimi danni nel lungo periodo. Quali? Riflettiamoci un momento, anche se a me paiono abbastanza ovvi.

Poiché solo l’appartenenza ideologica conta ed il desiderio di “vittoria” nello scontro retorico fa premio su tutto, diventano irrilevanti la logica e i fatti. Le decisioni, anche quelle di grande portata come l’adozione d’una legge elettorale, vengono prese non in base alle loro conseguenze ma per poter dire “ha vinto la mia parte”. Questo persistente ignorare conseguenze pratiche delle proprie decisioni rafforza sino a farlo diventare caricaturale uno dei tratti culturali più dannosi del discorso pubblico italiano: il primato della retorica e dell’apparenza sui fatti, sui dati e sulla logica. La cultura dell’apparenza e della bella figura si coniuga con la visione calcistica del dibattito politico dando luogo ad una percezione del mondo in cui i fatti non esistono più, esiste solo la narrativa ideologica che si vuol sostenere. Per dire: nell’infuocato dibattito sul burkini svariate persone hanno sostenuto che andrebbe vietato perché “poco igienico”. Verbatim.

La cultura dell’apparenza e della bella figura si coniuga con la visione calcistica del dibattito politico dando luogo ad una percezione del mondo in cui i fatti non esistono più

Come sorprendersi poi, in un paese che condivide tale atteggiamento culturale, che il Presidente del Consiglio declami i successi della propria politica economica quando il paese è di fatto ancora in recessione o che gli esponenti dell’opposizione teorizzino insistentemente demenziali effetti miracolosi da un’eventuale uscita dall’euro? Quando solo la retorica fa premio, la realtà scompare e rimane solo la chiacchiera che illude ed appaga. Come evitare, quando domina tale sistema di valori, che la scelta della propria rappresentanza politica avvenga puramente in base alla capacità di produrre retorica e mai in base all’effettiva produzione di fatti concreti? Come impedire che tale malattia si diffonda poi nell’intera società premiando sempre la lealtà alla banda politico-affaristica di appartenenza rispetto alla competenza professionale? Come pretendere risultati misurabili e meritocrazia sociale laddove impera la chiacchiera forbita e l’apparenza eloquente?

Mi rendo conto che, a molti, tutto questo possa sembrare secondario e financo pretestuoso convinti, come sono, che dalla presenza o meno di signore in burkini sulle spiagge dipendano i destini del mondo occidentale e dell’Italia – che di quel mondo, in tale ridicola visione, è sia l’origine che il perno essenziale – in particolare. Ma si dà il caso che così non sia: presto o tardi i burkini verranno accettati e poi, come avvenne con i costumi da mare delle nostre nonne, abbandonati per qualcosa di maggiormente confortevole o attraente.

La cultura della retorica vuota, della bella figura in pubblico e della guerra per bande, invece, rimarrà, continuando ad alimentare il declino socio-economico ed a farci avvicinare proprio a quei paesi in cui il simbolismo del burkini ha origine.