Il primo giorno di scuola, un cerimoniale che ci protegge

La stagionalità dei cicli scolastici è una scansione temporale che aiuta a controllare le condotte più disturbate. Una ritualità che affonda le sue radici fino a duemila anni fa, ai tempi dell’impero romano

Difficile dire se il primo giorno di scuola sia un rito di iniziazione, l’ingresso in un’età adulta. Primo giorno di quale scuola, poi? Delle elementari, delle medie, delle superiori? E di quale anno? Dal primo anno delle scuole elementari all’ultimo delle superiori si srotola un nastro di primi giorni che prolunga per tutta l’infanzia e l’adolescenza una periodica iniziazione. Mancando un rito vero e proprio, una separazione netta che ci separi dalla nostra immaturità pilucchiamo qua e là occasioni che lentamente ma mai del tutto ci fanno proseguire nel nostro viaggio. Eppure pare che questi eventi rinnovati aiutino a controllare le condotte più disturbate. Il solito studio di psicologia ci informa che i più gravi disturbi infantili e giovanili, i terribili disturbi di carenza dell’attenzione e iperattività (Attention Deficit Hyperactivity Disorder, ADHD), della condotta (Conduct Disorder, CD) e oppositivo provocatorio (Oppositional Defiant Disorder, ODD) si sviluppano in ambienti degradati, in cui queste scansioni rituali del tempo, della giornata e dell’anno, sono assenti.

Così il primo giorno di scuola con la sua ritualità ci protegge. E anche con il suo valore iniziatico. Forse soprattutto il primo giorno del primo anno di elementari, in cui ci si separa da quello dei genitori che accompagnano i figli a scuola. Un tempo si era lasciati incustoditi più facilmente e più precocemente. Qualcuno addirittura, andava a scuola da solo, al primo giorno di elementari. Oggi tutti sono accompagnanti dalle mamme o dai papà e ci si libera della tutela solo alle scuole medie e anche dopo.

Immaginiamo che un tempo fosse diverso, che queste cerimonie avessero un potere che le portava oltre la nudità dell’evento. In realtà non lo sappiamo, non ne sappiamo un bel nulla. Immaginiamo, appunto, ci beiamo di fantasie mitiche. E a loro volta quelle cerimonie rimandavano a miti, ovvero in fondo a fatti, a eventi accaduti. Quindi il cerchio si chiude: eventi sepolti nel tempo diventarono cerimonie rituali da ripetere ogni anno. E cerimonie ripetute ogni anno persero nel tempo ogni significato, diventando eventi annuali vissuti nella loro semplicità. Come il primo giorno di scuola.

In età romana la cerimonia che dava accesso alla maturità consisteva nella concessione al ragazzo acerbo di una veste, la toga virilis che andava a sostituire la toga praetexta, indossata per tutta la prima giovinezza e orlata di una fascia purpurea. La cerimonia avveniva al compimento di un certo anno di età, il quattordicesimo secondo alcune fonti, il diciassettesimo secondo altre. Veste che era dono del padre del ragazzo. E il permesso di indossarla significava il primo ingresso nel foro e nella vita pubblica da cittadino libero e adulto. Non sappiamo se questo accesso fosse vissuto con l’ansia del primo giorno di scuola. Probabilmente al posto dell’ansia vi era un sacro terrore.

Pare che questi eventi rinnovati aiutino a controllare le condotte più disturbate. Così il primo giorno di scuola con la sua ritualità ci protegge. E anche con il suo valore iniziatico. Forse soprattutto il primo giorno del primo anno di elementari, in cui ci si separa da quello dei genitori che accompagnano i figli a scuola.

Questa iniziazione a lungo desiderata avveniva in un giorno ben noto dell’anno, alla metà di marzo, giorno in cui cadevano insieme due feste e che quegli uomini antichi chiamavano “il sedicesimo giorno precedente le calende di aprile” (ante diem sextum decimum Kalendas Apriles). Era un giorno al crocevia tra l’inverno e le stagioni più temperate, un giorno in cui le menti degli uomini già presentivano la primavera. Era l’anno agricolo, in cui d’inverno ci si riposava insieme alla terra non coltivata e nei mesi temperati e caldi si lavorava. Che differenza con l’anno moderno e industriale, che come ben sappiamo inizia a settembre! Al giorno d’oggi ci si riposa d’estate e si lavora nei mesi freddi. È vero che il calendario ancora porta l’eredità di quelle età passate, dato che esso inizia a gennaio, nel profondo del freddo invernale. Ma è solo un residuo. Il vero capodanno è a settembre, quando si torna al lavoro e si iniziano le scuole. Con il primo giorno di scuola inizia l’anno, e questo è uno dei suoi significati rituali.

Quel giorno antico di marzo ospitava due feste. La prima erano gli Agonalia, festa in cui un sacerdote che portava un nome regale, il Rex Sacrorum -poiché in un tempo antichissimo e dimenticato questo sacerdote era stato Re degli uomini e dello Stato, ma poi egli aveva visto il suo dominio contrarsi alle sole cose sacre e si era ridotto da re a prete- sacrificava un capro a molti dei. Ora, questi dei erano tanti, un popolo numeroso, di un numero talmente elevato che nessuno poteva dire di conoscerli tutti. Ma di questi almeno quattro erano noti a ognuno. Il primo era Giano (Janus), il Dio bifronte e italico, colui che custodiva la pace ma sapeva senza titubanza aprire la porte alla guerra, quando necessario. Lo seguiva in processione Liber Pater, il padre Libero o Bacco, Dio non solo del vino, ma anche della benedetta fecondità. Dopo accorreva Vedovius, dio bizzarro e oscuro, ben conosciuto solo agli appassionati di storie e cose religiose, sfaccendati che raccontavano storie in piazza e sapevano dirti che questo Vedovius era un tipo dalle amicizie molteplici e contraddittorie, essendo assiduo sia della casa celeste Giove che della reggia sotterranea di Plutone. Ultima infine appariva in processione l’immagine del Sol Indiges, il Sole indigeno e ancestrale della città.

Ma questa era solo la prima delle due feste. La seconda festa erano i Liberalia, la festa del già menzionato dio Liber Pater. I Liberalia erano una festa popolare, celebrata non sulla sacralità separata e altezzosa degli altari dei grandi templi nel Foro, ma nelle case e per le strade, da donne che su banchetti di legno preparavano piccoli pani insaporiti con miele e poi, coronate di edera, agendo come sacerdotesse del dio, li offrivano ai passanti. E così nelle case le matrone facevano lo stesso in riti domestici, offrendo i loro piccoli pani mielati ai figli e al marito.

Vale la pena chiedersi se queste mamme e perfino questi papà che portano i loro bimbi e le loro bimbe a scuola siano differenti da quelle donne che offrivano piccoli pani al miele su banchetti di legno. È una domanda oziosa finché non capita che accompagnando un figlio all’Istituto dove ha il suo primo giorno, non si incontrano nell’atrio delle donne e anche un padre che offrono dolci a chi arriva. Probabilmente brioches al cioccolato. Madri che, in fondo, sono simili alle loro antenate che festeggiavano l’ingresso alla maggiore età dei figli.

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