Ormai sulla via della stigmatizzazione, i “genitori ombrello” – quelli che vivono la vita dei propri figli facendone le veci – cedono il passo ai genitori tutorial, quelli che, invece, educano i propri figli per educare tutto il mondo intorno e, mentre lo fanno, si filmano. O, in assenza di telegenia, pubblicano lettere su Facebook.
Il 4 ottobre scorso, Il Messaggero dà notizia di una madre che, sul proprio profilo Facebook, avrebbe pubblicato un video in cui rasa a zero sua figlia, colpevole di aver insultato una compagna di scuola malata di cancro. Lo stesso video, però, era circolato l’anno scorso su alcune testate straniere online, secondo le quali la colpa della ragazzina era essersi fotografata nuda. Dal Messaggero nessuna smentita, ma non importa.
Quel video è parso a tutti verosimile perché non passa giorno senza che sulle timeline di Facebook, sulle terze colonne dei giornali online, nei trend topic di Twitter e nel dibattito pubblico, non compaiano madri e padri che “hanno commosso il web” e “sono diventati virali”, avvalendosi di testimonal d’eccezione: i propri bambini. Abbiamo accettato che i bambini diventassero testimonial delle campagne dei propri genitori perché sono gli unici della cui innocenza nessuno di noi è capace di dubitare.
E siamo così inconsolabilmente orfani di credulità, che lasciamo non solo che dei bambini vengano usati come microfoni ed endorsment, ma pure che il mezzo non corrisponda più al messaggio. Un padre che filma i propri figli maschi, pazzi di gioia per essere stati accontentati nella richiesta di una Barbie (il video aveva avuto un successo clamoroso e mondiale, lo scorso anno) e che spiega loro – senza guardarli negli occhi poiché guarda fisso in camera, verso noialtri – che li accetterà sempre, qualunque cosa sceglieranno di diventare e a qualsiasi cosa decideranno di appassionarsi, che siano le Winx o i Transformer, non sta affatto scrivendo un nuovo capitolo nell’abbattimento dei pregiudizi di genere o della lotta all’omofobia (anche se è questo che è stato recepito): sta solo concorrendo alle auto-proclamate olimpiadi per il miglior padre dell’anno.
“Buongiorno, mi chiamo Marino Peiretti. Volevo informarvi che, come sempre, mio figlio quest’anno non ha fatto i compiti delle vacanze”: così comincia la lettera che, a settembre, è dilagata sui social network ed ha nuovamente aperto la decennale querelle sui compiti estivi (per alcuni troppi, per altri troppo pochi, per altri ancora, ma davvero mandate i vostri figli a scuola? Non avete mai sentito parlare di homeschooling? Se facciamo le marmellate in casa, perché mai non dovremmo anche farci l’istruzione?). Il signor Marino sosteneva, con un certo orgoglio, che suo figlio, a differenza degli altri pecoroni, questa estate, come tutte le altre della sua vita, era andato in bici, aveva osservato il padre cucinare, montargli la scrivania e insomma fatto un sacco di cose che in nessun modo assomigliavano a mansioni. “Firmato, Marino Peiretti” e, accanto alla firma, “MARINO PEIRETTI” in stampatello, caso mai qualcuno dei sessanta milioni di italiani che il signor papà sperava leggessero la sua lettera, non capisse la sua scrittura (premura non utilizzata nel resto della lettera, scritta in corsivo).
Il padre che filma i figli felici per aver ricevuto delle bambole non sta scrivendo un nuovo capitolo sulla lotta all’omofobia, ma sta solo concorrendo all’auto-proclamate olimpiadi di miglior padre dell’anno
Alcuni si sono commossi, altri infuriati, ma le reazioni e le riflessioni conseguenti non hanno incluso, come avrebbero forse dovuto, la rilevazione dell’incompatibilità tra esemplarità ostentata ed educazione. E sarà perché tardiamo ad affrontare questo discorso, sarà che, in fondo, siamo stati tutti contenti di acclamare i genitori del piccolo Matteo, inventore di petaloso, sarà che siamo affamati di esempi che arrivino dal basso, poiché verso quelli che arrivano dall’alto nutriamo una diffidenza ormai politica, sarà che più pensiamo a come non farci fregare dalle apparenze e più ne siamo succubi, che la sindrome dei genitori tutorial dev’essere sembrata, ai professori, il solo modo per riacquistare credito (ammettiamolo: chi si fida, ormai, degli insegnanti, oltre che come perfette vittime di un ricorso al Tar?).
A metà settembre, un professore milanese ha assegnato ai propri ragazzi la versione “Imperatum adeamus”: nient’altro che il testo di “Andiamo a comandare” in latino. A Londra, un professore insegna scienze rappando. Difficile pensare che l’abbiano fatto senza immaginare, nemmeno per un secondo, che qualcuno dei propri alunni avrebbe ripreso o fotografato la cosa e loro sarebbero finiti in prima pagina da qualche parte. Tuttavia, nel loro caso, s’intravvede davvero una buona causa: dimostrare che, a scuola, se non c’è speranza di incappare in un professore da “Attimo fuggente”, ci sono almeno diverse possibilità di finire nelle mani di qualche mente brillante.
I professori, dopotutto, devono avvicinarsi ai modi dei genitori dei propri alunni e, pure, essere (o fingere di essere) loro complici, tale è l’invasione proterva cui sono sottoposti. Invece, forse, ai genitori dovrebbe essere proibito di avvicinarsi alle scuole, che sempre di più diventano l’ultimo luogo in cui i bambini sono da loro al sicuro.
Persino gli scrittori hanno paura dei genitori. Nadia Terranova, autrice di libri per ragazzi (l’ultimo è “Casca il mondo”), ha scritto:
“Lavoro in solitudine e nel silenzio per giorni mesi anni, lavoro per la felicità segreta di sentirmi poi chiedere con la bocca spalancata: “Ma come ha fatto a scrivere esattamente come ci sentiamo?”. Do molte risposte cretine e non ho mai il coraggio di tirare fuori la più precisa: non avendovi intorno, ho molto tempo per pensare a voi. Sarà pur vero che nessuno si salva da solo, ma tutti vi salverete fuggendo da genitori che trascorrono la mezza età a celebrarvi e ogni settimana si ritrovano fra le pagine di un quotidiano come alcolisti anonimi”.
Come alcolisti anonimi, adoratori o youtuber: la dipendenza, in fondo, è sempre la stessa ed è sempre la loro.