Il 13 novembre 2015 a Bruxelles, la serata era cominciata come in qualunque altro venerdì. «Ero seduto in un bar quando è arrivata la notizia degli attentati di Parigi, che abbiamo seguito in diretta per ore – ricorda il giornalista Grégoire Comhaire. 130 morti, tra terrazze di caffè e Bataclan, a soli 300 chilometri della capitale belga. Ma sin dall’indomani si cominciò a sapere che l’origine della strage era ancora più vicina: a commetterla erano stati ragazzi di Bruxelles. Di un quartiere in particolare : Molenbeek. «Da bruxellois, eravamo combattuti – spiega Grégoire Comhaire -. Faceva uno strano effetto pensare che gli autori di questi attentati, i più spettacolari da quelli dell’undici settembre in America, erano cresciuti proprio qui, nella nostra piccola città. Però al contempo, in un certo senso, sapevamo benissimo che a Molenbeek succedevano cose brutte. Da anni si sapeva che partivano giovani per la Siria».
«Nel giro di 24 ore sono arrivati giornalisti dal mondo intero. Non penso esagerare dicendo che in quel quartiere sono sbarcati circa 200 media che hanno iniziato a fare inchieste e dirette TV», racconta Grégoire Comhaire, che in quel periodo lavorò da tramite per una televisione straniera e ricorda «due settimane assolutamente pazze». Da una parte, dice, il sospetto di un attentato imminente aveva portato il livello di vigilanza a 4 su una scala di 4, obbligando a chiudere scuole, negozi e metro, svuotando completamente le strade dove non circolavano praticamente che veicoli militari. Dall’altra, c’era questa «massiccia presenza di giornalisti che volevano incontrare ogni parente, fratello, amico, ex-ragazza e compagno di scuola dei sospetti, e che perciò andavano sù e giù per tutte le strade di Molenbeek interrogando ogni passante. Era una cosa incredibile da osservare, e si è proprio visto di tutto» dice, descrivendo un mercato in cui vicini e conoscenze dei sospetti erano pagati profumatamente per testimoniare, e vendevano archivi video e foto per migliaia di euro.
«Con questa valanga mediatica, questa tendenza all’hot news che la maggior parte dei media insegue, è nata rapidamente l’etichetta di “Molenbeek covo di djihadisti” – ricorda José-Luis Peñafuerte -. Si trattava di quartieri che avevamo frequentato», spiega il regista nato e cresciuto a Bruxelles, e che proprio in quel periodo decise, insieme a Chergui Kharroubi, di iniziare a girare un documentario «per capire cose che finora ci erano probabilmente sfuggite, o che non avevamo preso il tempo di guardare». Il loro film “Molenbeek, génération radicale?” (Molenbeek, generazione radicale) è stato trasmesso lunedì 7 novembre sul primo canale della televisione pubblica francofona.
Per iniziare a lavorare, però, Kharroubi e Peñafuerte hanno aspettato che si calmasse l’agitazione mediatica: «Già prima di Natale, dopo poco più di un mese, non c’era più nessuno. Abbiamo aspettato ancora un po’ e siamo tornati poco a poco. Abbiamo trovato una popolazione traumatizzata. Anzi: doppiamente traumatizzata. Innanzi tutto dagli attentati di Parigi, ma anche da questa stigmatizzazione aggressiva – perché la gente, davvero, si è sentita aggredita». E poi, aggiunge, «c’era anche paura. Quella di dovere sollevare il coperchio su certi problemi che esistono a Molenbeek, e che di certo non si possono negare». Così hanno incontrato ragazzi indignati contro la discriminazione che subiscono, associazioni impegnatissime, madri disperate dopo la partenza dei propri figli verso la Siria, ex-djihadisti pentiti e professori oberati da discussioni in classi troppo difficili da gestire, su terrorismo, complottismo e religione.
L’ostilità verso i media è stata la maggiore difficoltà, dice il regista, che però capisce benissimo questa reazione: «C’è gente che è proprio stata ingannata, manipolata dai media, compresi quelli locali. Per esempio degli imam che hanno aperto le loro porte benevolmente, per far vedere che non c’erano problemi nelle loro moschee, e che si sono accorti in seguito che le immagine erano state usate per fare da sottofondo alla voce off di un giornalista che trasmetteva un discorso estremamente negativo e stigmatizzante».
E poi, il 22 marzo, proprio nella settimana in cui pensavano di finire le riprese, scoppiarono gli attentati di Bruxelles. «Da quel momento, racconta Peñafuerte, è diventato più facile. Ci sono state reazioni molto diverse dalla parte di tutti i nostri protagonisti. Il sentimento era: abbiamo toccato il fondo, ora dobbiamo parlare apertamente se vogliamo che cambino le cose». 32 morti, 340 feriti, tra cui stranieri e belgi, musulmani e non. E questo ha permesso di dimostrare ai giovani, spiega Fouad Ben Abdel Kader nel film, Il fatto di essere musulmani non implica una loro protezione contro gli atti terroristici: «Se viene l’isis fa saltare tutti, pure tua madre».
«La generazione attuale, quella dei 15-30, è una generazione radicale. Punto e basta. Non radicalizzata, non islamista: radicale. Una generazione che dice: bianco o nero. Sì o no. È un modo per fare sentire la sua voce ed opporsi a un sistema che l’ha spinta nella precarietà. Si vede dappertutto in Europa»
https://www.youtube.com/embed/lB2IDPyxSyI/?rel=0&enablejsapi=1&autoplay=0&hl=it-ITEducatore per un’associazione, Fouad è un personaggio centrale nel documentario. Accompagna un paio di ragazzi al Mima, il museo di arte istallato di recente nel loro quartiere, oppure ne porta altri fino al canale che separa Molenbeek della parte più ricca della città e gli incoraggia a oltrepassare questo confine. È lo stesso Fouad a pronunciare la frase dalla quale è stato tratto il titolo del film: «La generazione attuale, quella dei 15-30, è una generazione radicale. Punto e basta. Non radicalizzata, non islamista: radicale. Una generazione che dice: bianco o nero. Sì o no». Questa attitudine radicale, aggiunge Peñafuerte, «è un modo per fare sentire la sua voce ed opporsi a un sistema che l’ha spinta nella precarietà. Si vede dappertutto in Europa. Io l’ho visto in Spagna con gli Indignados».
I giovani dei quartieri popolari di Bruxelles, indeboliti dal loro contesto «sono in un certo senso i nostri Indignados, pero tocca stare attenti per evitare che cadano nell’islamo-fascismo». Come? «Servono Molti Fouad – risponde ridendo -. Molti educatori del suo livello, ai quali vanno dati i mezzi necessari che per ora sono distribuiti in modo clientelista. C’è molta precarietà e la combinazione è disastrosa : in certi quartieri di Bruxelles, il tasso di disoccupazione degli under 25 sale a 45%, al quale si aggiunge un numero altissimo di giovani che lasciano la scuola, dove comunque mancano posti». È noto che Molenbeek ha gravissimi problemi di bilancio, aggiunge, «però mi pare che i tagli non andrebbero fatti nell’educazione e la cultura». Iniziative ci sono, ammette, pero l’azione del comune e rallentata dal fatto cha a gestirlo sia una coalizione di partiti diversi, con priorità visibilmente opposte. C’è ovviamente, il peso elettorale dei musulmani. «Ma va anche sottolineato l’uso politico di queste vicende in Belgio. Ricordiamo che il primo partito nella regione fiamminga [e quello con maggiori quote nel governo federale ndr] è la N-VA, un partito populista che punta sul discorso securitario per salire nei sondaggi».
A un anno di distanza dal giorno in cui il mondo scoprì Molenbeek, José-Luis Peñafuerte ha il sentimento che la stigmatizzazione si sia comunque attenuata. «Sui social, il nostro film ha avuto moltissimi commenti che dicevano “grazie di darci finalmente una visione più equilibrata”. Penso che la situazione si sia calmata e che i cittadini capiscano le cose». Per il giornalista indipendente Grégoire Comhaire, invece, l’immagine del quartiere è rimasta identica. «Si vede chiaramente quando andiamo all’estero, perché è la prima cosa di cui la gente ci parla. A sentirla, sembra che Molenbeek sia una no-go zone dove la polizia non osa circolare. Non è vero, non è così. Ci sono zone delle periferie parigine che sono molto peggio di questa. Però l’immagine che è rimasta è questa».
*Giornalista di “Courrier International”