Alla fine il professore ha battuto l’ingegnere e l’Austria si ritrova con un presidente verde, scacciando, almeno per il momento, l’incubo populista. Facendo così un favore a se stessa e all’Europa. Dopo quasi un anno di campagna elettorale, due chiamate alle urne, ballottaggi annullati e buste scollate, Alexander Van der Bellen, economista convertitosi alla politica, è stato eletto nuovo capo di Stato a Vienna, sconfiggendo Norbert Höfer, mandato in campo da quella Fpö che fu di Jörg Haider e che guidata oggi da Christian Strache rimane comunque il partito che rischia di ribaltare ancora una volta la scacchiera sul Danubio.
I moderati, tra l’Austria ancora felix per un pelo e l’Unione Europea che temeva un pericoloso esempio di scivolone verso la destra radicale e xenofoba, tirano così un sospiro di sollievo. Delusione invece per i Freiheitlichen che, dopo aver fatto un paio di volte capolino in coalizioni di governo, sia con la Spö (partito socialdemocratico austriaco, ndr) negli anni Ottanta che con la Övp (partito popolare austriaco, ndr) lo scorso decennio, devono abbandonare il sogno della poltrona presidenziale. Per ora.
Già, perché se la vittoria di Van der Bellen è stata comunque netta ed è perciò un chiaro segnale che la maggioranza degli austriaci ha dato contro le idee e i toni un po’ borderline dell’estremismo destrorso, i problemi a Vienna rimangono quelli di prima e non sarà certo il fresco capo di Stato, figura sostanzialmente rappresentativa, a risolverli. La Grande coalizione tra socialisti e popolari che tiene le redini da ormai dieci anni è in grave difficoltà non solo dopo le dimissioni lo scorso maggio del cancelliere Werner Faymann, ma anche perché il suo sostituto Christian Kern, da pochi mesi in carica, non ha saputo dare la necessaria spinta propulsiva per il rilancio.
Se la vittoria di Van der Bellen è stata netta ed è un chiaro segnale che la maggioranza degli austriaci ha dato contro le idee e i toni borderline dell’estremismo destrorso, i problemi a Vienna rimangono quelli di prima
Non è un caso che i candidati di Spö e Övp alla Hofburg siano stati silurati tutti al primo turno e alla fine gli elettori della sinistra e della destra moderata sia siano dovuti affidare al verde Van der Bellen. Come non è un caso che la Fpö sia secondo tutti i sondaggi dell’ultimo anno di gran lunga il primo partito. I liberali blu con scartamento a destra di Strache viaggiano stabilmente oltre il 30%, mentre rossi e neri sono impotenti di fronte a un’avanzata che pare inarrestabile e che la sconfitta di Hofer ha solo rallentato.
L’erosione dei partiti di massa e l’ascesa dei populisti non è un fenomeno nuovo e l’Austria continua a essere un Paese spaccato. Dalla fine della Seconda guerra mondiale Spö e Övp hanno governato sempre, insieme o singolarmente, e solo per brevi periodi, appunto quando prima i progressisti e poi i conservatori hanno cooptato la Fpö, è spuntata un’alternativa. Nell’ultimo decennio la Große Koalition austriaca ha lasciato spazio al ritorno del populismo alpino che dopo la morte improvvisa di Haider nel 2008 sembrava aver interrotto la sua corsa.
In vista delle parlamentari del 2018 la Fpö viaggia con il vento in poppa ma rischia di rimanere a mani vuote: l’alleanza dei partiti tradizionali è destinata tutto sommato a reggere
Il problema per Strache e Hofer è che non basta fare il pieno di voti e diventare davvero il primo partito nel Paese per governare davvero. In vista delle parlamentari del 2018, che dopo la vittoria di Van der Bellen difficilmente verranno anticipate, la Fpö viaggia con il vento in poppa, alla fine rischia però di rimanere a mani vuote. L’alleanza dei partiti tradizionali è destinata tutto sommato a reggere, anche se non è certo impossibile che qualcuno decida di cambiare gli equilibri. Lo si è visto nel 2000, quando i popolari di Wolfgang Schüssel si allearono improvvisamente con Haider, scatenando tra l’altro il panico nell’Unione Europea, che decise addirittura di mandare tre saggi per verificare che la Fpö fosse un partito democratico e non un ricettacolo di nipotini di Hitler.
Per adesso a Vienna socialisti, popolari e verdi dunque festeggiano, i populisti meditano invece la rivincita. A Bruxelles, dove a risultati capovolti questa volta nessuno si sarebbe sognato di mandare una missione di osservazione per fare le pulci a Hofer, si sorride di fronte al pericolo scampato, anche se lo spettro di una destabilizzazione è sempre dietro l’angolo. Sia che si tratti del referendum in Italia, per il quale Matteo Renzi non ha mai avuto così tanti tifosi nelle cancellerie europee, o delle elezioni del prossimo anno in Germania e in Francia. Mentre a Berlino lo spettro della Afd non fa troppa paura ad Angela Merkel che si candida per la quarta volta, a Parigi l’arrivo di Marie Le Pen all’Eliseo è una probabilità reale. L’effetto Donald Trump non ha contagiato insomma Vienna, ma il virus populista è pronto per nuovi attacchi.