L’Italia del post referendum è sull’orlo del precipizio, secondo Philippe Legrain (Social Europe): il nostro sistema bancario ha urgente bisogno di capitali freschi per rimanere competitivo, e la nuova situazione di instabilità politica aggrava ulteriormente questa necessità. L’elevata disoccupazione giovanile e la crescita dei partiti euroscettici rendono la situazione ancora più complicata. Wolfgang Munchau concorda sul fatto che avere un solo partito convintamente pro-euro fa dell’Italia una fonte di potenziale instabilità per l’Ue. Se un partito favorevole all’uscita dalla moneta unica finisse alla guida del Paese, avremmo un caso di profezia che si auto-avvera, dato che la sola ipotesi di una possibile uscita scatenerebbe una corsa agli sportelli e una fuga dai titoli di debito italiano. Il nuovo primo ministro italiano dovrà quindi spiegare al prossimo cancelliere tedesco che la scelta non sarà tanto tra un’unione politica e lo status quo, ma piuttosto tra un’unione politica e un “Italexit” dall’euro, con tutto ciò che ne deriva.
Diversa è la posizione di Benedetta Brevini secondo cui la vittoria del No in Italia non costituisce una minaccia per l’Unione Europea: innanzitutto i referendum sui trattati internazionali – come nel caso del referendum sull’euro sostenuto dal Movimento Cinque Stelle – sono vietati dalla Costituzione. Inoltre, la maggioranza degli italiani (58%) continua a sostenere l’Ue. Brevini prosegue dicendo che il dibattito intorno a questo argomento costituisce un esempio di “verità di comodo” (truthiness, nel famoso neologismo di Stephen Colbert), piuttosto che di verità. Prevale infatti nella percezione della realtà la componente emotiva ed individualista, piuttosto che quella scientifica, logica e, se vogliamo, giornalistica. Un’analisi di Silvia Merler per Bruegel rileva che i fattori socio-economici che stanno dietro alla vittoria del No in Italia siano in realtà diversi da quelli del voto per Brexit, e sarebbe un errore riferire i due eventi a una stessa matrice. Sembra che il “No” in Italia sia stato trainato soprattutto dai giovani e che sia collegato a una condizione di “malessere” economico, mentre nel voto pro Brexit hanno pesato probabilmente i più anziani e i meno istruiti.
Se un partito favorevole all’uscita dalla moneta unica finisse alla guida del Paese, avremmo un caso di profezia che si auto-avvera, dato che la sola ipotesi di una possibile uscita scatenerebbe una corsa agli sportelli e una fuga dai titoli di debito italiano
Astenersi esseri umani?
Sandro Scocco mette in discussione la tesi secondo cui le nuove tecnologie produttive riducano i posti di lavoro e siano uno dei fattori dietro il crescente divario sociale in Europa. Diverse ragioni storiche suggeriscono che questo non è probabilmente il caso. Innanzitutto, a caratterizzare il periodo compreso tra il 1980 e il 2015 non è stato tanto un forte cambiamento tecnologico nella produzione, quanto una significativa trasformazione nella sfera privata. Inoltre, a lungo andare, non c’è correlazione significativa tra il cambiamento tecnologico e la crescita degli scambi da un lato, e distribuzione del reddito o disoccupazione dall’altro. Invece di parlare di disoccupazione provocata dal cambiamento tecnologico, Paul Mason sostiene che dovremmo preoccuparci dell’effetto contrario, vale a dire la deindustrializzazione dovuta a costi di manodopera estremamente bassi. Questa tendenza è esemplificata dagli autolavaggi, il cui numero nel giro di un decennio si è dimezzato semplicemente perché cinque ragazzi con uno straccio possono battere la concorrenza di una macchina da decine di migliaia di sterline. Il vero problema sta nel fatto che il sistema economico è concepito per distribuire il ricavato della globalizzazione verso l’alto e i suoi costi verso il basso. Le ricette dei policy-maker invece -libero scambio e globalizzazione- continuano ad alimentare la crisi.
Paul Mason sostiene che dovremmo preoccuparci della deindustrializzazione dovuta a costi di manodopera estremamente bassi. Questa tendenza è esemplificata dagli autolavaggi
Città e campagna si stanno allontanando
Andy Beckett osserva che la reazione contro il liberalismo urbano e il multiculturalismo è stata una componente dominante sia della Brexit sia della campagna elettorale di Donald Trump. Le aree urbane e rurali tendono a sostenere posizioni politiche diverse, e soprattutto, le città stanno perdendo il loro peso politico. Ciò che rende le città moderne attive e culturalmente dominanti – ovvero la crescente densità demografica, nonché l’atmosfera e le reti che ne derivano – le ha lasciate politicamente sottorappresentate. Nel Regno Unito, per esempio, molti cittadini stranieri vivono in città (solo Londra ne conta un milione), e non possono votare se non alle comunali. Negli Stati Uniti è invece in atto un meccanismo diverso ma con risultati simili: le circoscrizioni elettorali non sono state riequilibrate in modo da riflettere la recente riurbanizzazione, pertanto le città risultano relativamente sottorappresentate nelle istituzioni.
Leggi anche:
- Brexit/Trump: Wake-up Calls For More Active EU – Social Europe
- Renzi’s referendum defeat is part of the legitimacy crisis plaguing left wing parties in Europe – EUROPP
- Only England and Wales voted to leave the EU. So the UK should let them go – The Guardian
Traduzione dall’inglese a cura di Elisa Carrettoni