Una legge fatta negli Stati Uniti può avere conseguenze nelle miniere di un Paese africano? Certo che sì, soprattutto se si parla del Frank-Dodds Act, legge cardine dell’amministrazione Obama che Donald Trump ha già detto di voler smantellare per varie ragioni. Il Paese africano interessato, invece, è il Congo, fino al 2010 principale fornitore di alluminio, tantalio, tungsteno e oro per le aziende Usa produttrici di device tecnologici (l’iPhone che tenete in mano, per capirsi).
La legge, fatta con le migliori intenzioni, obbligava – tra le mille altre cose – i produttori americani a dichiarare, in modo documentato, la filiera dei loro prodotti, compresa la provenienza delle materie prime. In questo modo, pensavano a Washington, le milizie che spadroneggiavano sulle miniere congolesi sarebbero state colpite in modo inesorabile. E così è andata: le grandi company se ne sono andate in Brasile e Argentina, il fiume di dollaroni si è bloccato, le miniere hanno chiuso. Ma le milizie, però, godono ancora di ottima salute, anzi: perso il business delle miniere hanno continuato a esercitare la loro autorità colpendo agricoltori e allevatori, aumentando le “tasse” e riducendo la ricaduta sul territorio (perché sì, anche se ingiusti e mafiosi, i miliziani congolesi mantenevano la loro posizione anche con una politica di consenso e di redistribuzione della ricchezza, insieme – come è ovvio – alla repressione e al controllo totale). Alla fine i minatori hanno perso il lavoro e si trovano in condizioni da fame. Si stava meglio quando si stava peggio.
La questione è stata documentata da più parti. Lo ha detto Foreign Policy, lo aveva fatto notare qualche anno prima il Washington Post, perfino Politico si era avventurato in questa storia. Tutti riportavano lo stesso problema: la “Obama’s Law”, cioè la “legge di Obama”, come la chiamavano i poveri disoccupati delle miniere, aveva rovinato la loro vita. Succede anche questo, nel mondo degli iPhone e della globalizzazione.