La giustizia in Italia è lenta, per molte ragioni. Leggi farraginose e procedure bizantine non aiutano, e del resto siamo il paese degli azzeccagarbugli. Uno dei motivi principali della lentezza è innegabilmente la mancanza di personale: mentre in molti casi i dipendenti pubblici sono in sovrannumero, nei Tribunali e nelle corti di Appello si vive ormai da molti anni in una cronica mancanza di personale. Le stime dicono che mancano almeno 9mila dipendenti.
Come si risolve il problema? Facendo un bel concorso e assumendo le professionalità necessarie, dirà qualcuno. Individuando chi ha competenze compatibili – e/o avviando una operazione di riqualificazione professionale attraverso la formazione – e spostando da uffici pubblici carichi di personale a quei tribunali che ne hanno bisogno, dirà qualcun altro.
Tutte proposte ragionevoli. Invece il ministero della Giustizia ha deciso di fare altrimenti, e sette anni fa ha avviato una mostruosità. Ed è giunto il momento che tutti la conoscano.
Sette anni fa, in tutta Italia, vennero selezionati all’incirca 2.600 disoccupati. Molti di loro erano in cassa integrazione, o in mobilità. Molti avevano superato i 40 anni, alcuni addirittura i 50, avevano (e hanno) famiglie da mantenere.
Venne loro proposto, anziché restare a casa a far niente percependo il sussidio di disoccupazione, di fare un tirocinio formativo in un ufficio giudiziario, ricevendo anche una gratifica commisurata alle ore di impegno. I tirocini sarebbero durati un anno, dal giugno 2010 al giugno 2011. I denari per sostenere il costo dell’operazione c’erano. Tutto legale.
I 2.600 (semplifico: alcuni cominciarono dopo, vi furono differenze tra Regione e Regione) entrarono così nei Tribunali e nelle corti d’appello. Vennero assegnati a diversi uffici, ciascuno apprendendo una mansione. Divennero quasi subito utili, e con l’andare del tempo addirittura indispensabili. Pur formalmente solo tirocinanti, e non lavoratori, di fatto nelle ore di servizio queste persone svolgevano un lavoro prezioso per permettere lo svolgimento dell’amministrazione della giustizia.
La formazione impartita loro al fine di svolgere questo stage aveva però la pecca di essere molto specifica, fatta apposta per il funzionamento degli uffici giudiziari; poco spendibile all’esterno. Poco male: dopo 12 mesi (il termine massimo di durata indicato dalla legge di riferimento, che a quell’epoca era indubitabilmente il decreto ministeriale 142/1998) gli stage sarebbero finiti, e queste persone sarebbero state “ributtate” nella mischia, con l’obiettivo di far loro trovare (auspicabilmente, con il supporto dei centri per l’impiego) un vero lavoro con un vero stipendio.
Quello che è successo negli anni successivi ha dell’incredibile. In un meccanismo distorsivo tipicamente italiano, lo Stato si è reso conto che questi tirocini erano utilissimi. Non agli stagisti stessi, certo che no. Ma al funzionamento della macchina della giustizia.
Quello che è successo negli anni successivi ha dell’incredibile. In un meccanismo distorsivo tipicamente italiano, lo Stato si è reso conto che questi tirocini erano utilissimi. Non agli stagisti stessi, certo che no. Ma al funzionamento della macchina della giustizia.
Si è reso conto che usando queste persone all’interno dei Tribunali aveva (certo non totalmente, ma almeno parzialmente) risolto il problema dei buchi di organico: aveva persone in grado di lavorare, di svolgere mansioni preziose negli uffici giudiziari, senza la seccatura di dover dare loro un inquadramento corretto. Niente contratto (solo una convenzione di stage), niente stipendio (solo una indennità mensile), niente contributi, niente tfr, niente obblighi in caso di malattia o maternità. Nessuna responsabilità, costi bassissimi, vantaggio enorme.
Allora ha escogitato un modo per trattenere queste persone. La legge sugli stage lo impediva, i 12 mesi erano passati. Ma chi controlla l’utilizzo degli stage? E chi poteva sognarsi di affermare che un programma di stage promosso e vidimato nientepopodimeno che dal ministero della Giustizia, e svolto all’interno degli uffici che garantiscono il rispetto della giustizia in Italia, non fosse conforme alla legge?
Così è cominciato un balletto penoso. Dalla definizione di “tirocini formativi” si è passati inizialmente a quella di “completamento dei tirocini”. Poi “di perfezionamento”. Fino ad arrivare, pochi giorni fa, al bando per “un ulteriore periodo di perfezionamento”. Quasi puerilmente il ministero ha cercato di camuffare con questi cambi di nome la sostanza delle cose: e cioè la proroga anno dopo anno, contra legem, dei tirocini.
A volte con pause di pochi giorni, a volte di settimane o mesi tra una “tranche” e l’altra, ma sempre nell’ambito di un unico, abnorme tirocinio che ha ormai doppiato la boa dei 6 anni.
Dall’altra parte, la maggior parte di questi disoccupati-stagisti (che nel frattempo si sono fatti battaglieri, autoproclamandosi “precari della giustizia”) non ha compreso appieno il rischio di ascoltare quelle sirene. Ha sperato che, continuando a presidiare il proprio ufficio, prima o poi – come già molto spesso avvenuto in Italia – sarebbe sopraggiunta una sanatoria, una assunzione generale. Ha sperato che quello stage diventasse un lavoro.
Come troppo spesso accade in Italia, nessuno si sarebbe preso la responsabilità né di sanare – troppo costoso in termini economici – né di interrompere – troppo costoso in termini elettorali – questi rapporti di lavoro mal iniziati.
Le persone coinvolte non hanno voluto vedere che, come troppo spesso accade in Italia, nessuno si sarebbe preso la responsabilità né di sanare – troppo costoso in termini economici – né di interrompere – troppo costoso in termini elettorali – questi rapporti di lavoro mal iniziati. Che le dirigenze politiche e ministeriali avrebbero contato sul logoramento della situazione anno dopo anno, sul progressivo abbandono volontario, fino a rendere il gruppo ininfluente e solo allora poterlo smantellare.
Tutto questo pur di non affrontare il problema dei 9mila buchi di organico. Tutto questo giocando con la vita delle persone (ormai poco più di mille, per progressivi abbandoni e anche esclusioni), alcune delle quali ormai prossime all’età della pensione, eppure ancora costrette in un limbo. Tutto questo in spregio della legge. Ministro Orlando, così non va.