La Fifa vuole chiudere l’intifada del calcio: via il pallone dalle colonie israeliane

Gli insediamenti di Israele tra Golan, Cisgiordania e Gerusalemme Est sono illegali: lo dice la risoluzione Onu di fine 2016. E la Fifa vuole togliere la status di professionisti alle squadre che qui giocano, su campi che occupano terreni sottratti ai palestinesi. Ma Infantino temporeggia

Che l’infinita guerra tra Israele e Palestina sia spesso e volentieri nei campi di pallone, è cosa nota. L’ultima notizia è che ora la Fifa vuole intervenire per evitare una nuova intifada del calcio. Imponendo all’Ifa (Israel Football Association) di revocare lo status di professionismo ai club israeliani che giocano nelle colonie. Una decisione che il Governo mondiale del football potrebbe prendere già il prossimo mese. Sempre che Gianni Infantino, neo capo della Fifa, si decida a superare quella impasse che, quando era a capo della Uefa, non ebbe in un caso simile, cioè quello dell’annessione russa della Crimea.

L’ultima intifada del pallone è una guerra che si combatte da quasi due anni. Tutto ruota attorno al diritto internazionale e, in particolar modo, allo status delle colonie, che nascono dopo la Guerra dei Sei Giorni del 1967, nel Sinai in Egitto – dove verranno rimosse grazie agli accordi di pace nel 1979 -, sulle alture del Golan in Siria, in Cisgiordania e a Gerusalemme Est nei territori palestinesi, dopo che nel 2005 furono sgomberate da Ariel Sharon quelle presenti nella Striscia di Gaza. In base al diritto internazionale sono territori occupati militarmente da Israele. Nonostante le proteste della comunità internazionale, che le ritengono uno dei principali ostacoli alla pace e alla soluzione dei “due popoli e due Stati”, le colonie sono andate espandendosi costantemente negli ultimi decenni. I coloni sono passati dai 10 mila del 1972 ai 500 mila nel 2010 e, grazie alle politiche del governo Netanyahu a loro favorevoli, agli oltre 600 mila attuali.

L’espansione delle colonie ha riguardato anche lo sport. Con le inevitabili frizioni tra Israele e Palestina, sfociate in scontri ai checkpoint e richieste di boicottaggio. Nel 2015 Jibril Rajoub, già capo dei servizi interni e poi divenuto presidente della Federcalcio palestinese, rinunciò in maniera clamorosa alla richiesta ufficiale di espulsione di Israele dalla Fifa. Clamorosamente, perché tale richiesta sarebbe dovuta arrivare dopo mesi di battage mediatico a seguito di un incidente avvenuto nel 2014 al checkpoint di Al Ram, nella West Bank: alcuni soldati israeliani avevano imbracciato le armi e sparato ai piedi di due giovani calciatori, stroncandone di fatto la carriera. L’episodio era stato l’ultimo di una lunga serie di attacchi israeliani nei confronti dello sport palestinese. Il più grave resta quello del novembre 2012 quando morirono quattro ragazzi palestinesi impegnati in una partita di calcio: all’epoca, molti calciatori si schierarono pubblicamente in favore della Palestina, chiedendo il boicottaggio dell’Europeo Under 21 che proprio Ia Uefa aveva assegnato a Israele.

Non fu la prima volta che si parlò di una possibile espulsione di Tel Aviv. Già nel 2010, il presidente della Uefa Michel Platini aveva tuonato: “Israele rischia l’espulsione dall’Unione se continua a impedire al calcio palestinese di crescere e svilupparsi”, dopo che Tel Aviv aveva negato a 6 giocatori della squadra palestinese di uscire da Gaza per disputare una partita contro la Mauritania. La presenza stessa delle colonie poi, secondo un report di Human Right Watch, contribuisce a violare i diritti umani. Un esempio: i campi di calcio sono costruiti su terreni illegalmente sottratti ai palestinesi.

Ed arriviamo alla questione attuale. La recente risoluzione dell’Onu (UN Security Council Resolution 2334) del 23 dicembre 2016, passata grazie alla storica astensione degli Stati Uniti, ha stabilito che l’attività di colonizzazione di Israele nei territori palestinesi costituisce una “flagrante violazione” del diritto internazionale e nega qualsiasi validità legale all’occupazione israeliana. E lo Statuto FIFA prevede che “un’associazione calcistica membro non può disputare partite nel territorio di un’altra federazione membro senza l’esplicito consenso della stessa”. Per dar seguito alla decisione dell’Onu, che impone di differenziare il trattamento delle colonie rispetto al resto di Israele, la Fifa di fatto non ha dunque altra scelta che ordinare alla IFA (Israel Football Association) di escludere i sei club israeliani delle colonie. Un provvedimento oltretutto sollecitato anche da una lettera firmata da decine di europarlamentari. La regola che si chiede di applicare alle colonie israeliane è già stata applicata altre volte, ad esempio in Crimea dopo l’annessione russa del 2014, quando si impedì ai club crimeani di giocare nel campionato russo. Ironia della sorte il presidente Uefa che applicò quella decisione alla Russia è lo stesso Infantino, ora divenuto presidente della Fifa, che pare molto riluttante ad applicare la stessa decisione a Israele.

«Infantino aveva detto al Congresso della Fifa lo scorso maggio che avrebbe trovato una soluzione per ottobre. Ma da allora ha rimandato già due volte la decisione. Personalmente dubito che possa rimandare ancora, se non vuole perdere la sua credibilità. Infatti la questione delle colonie, se non risolta, potrebbe spaccare la Fifa al prossimo congresso in Bahrein in maggio», spiega a Linkiesta Martin Konečný, direttore dello European Middle East Project.

Infantino, annunciando lo scorso martedì 10 gennaio di voler attendere un report che arriverà tra un mese prima di decidere, ha dichiarato di non voler “mescolare calcio e politica”, ma la sua condotta attuale lo sta comunque esponendo a questa critica. Se applicasse le regole senza riguardo per chi ne viene colpito – questa è l’accusa – la decisione di escludere i club delle colonie illegali israeliane sarebbe automatica, specie alla luce della risoluzione dell’Onu di dicembre scorso. Ma invece si preferisce temporeggiare, forse per timore dei risultati che produrrebbe l’eventuale condanna di Nyon. «Quando la Uefa decise contro i club crimeani la Russia obbedì immediatamente, nonostante la retorica trionfalista e nazionalista di Putin a proposito della Crimea di quel tempo», dice ancora Konečný. «Anche Israele dovrebbe obbedire. Non avrebbe infatti altra scelta, se volesse restare nella Fifa».

Lo statuto della Fifa stabilisce che una associazione non può giocare nel territorio di un’altra associazione senza il permesso di quest’ultima. Una regola che ad esempio è stata applicata in Crimea dopo l’annessione russa del 2014, quando si impedì ai club crimeani di giocare nel campionato russo. Ironia della sorte il presidente Uefa che applicò quella decisione alla Russia è lo stesso Infantino, ora divenuto presidente della Fifa, che pare molto riluttante ad applicare la stessa decisione a Israele.

Se anche Israele si piegasse, non lo farebbe comunque senza alzare prima i toni. Un precedente a cui guardare è quello della “questione del labeling, quando l’Unione europea decise di escludere dal regime commerciale di favore che normalmente accorda ai prodotti israeliani quelli provenienti dalle colonie illegali e di informarne i consumatori tramite le etichette. La reazione di Tel Aviv fu allora furiosa, e adesso potrebbe esserlo ancor di più, visto che il calcio è più sentito. «Credo però si avrebbe presto un effetto positivo», riprende Konečný. «Ad esempio quando la Ue prese la decisione sul finanziamento dei progetti scientifici – per cui se veniva fatta ricerca sfruttando in qualche modo le colonie illegali, i finanziamenti europei non venivano erogati ndr. – si sviluppò subito un forte dibattito pubblico in Israele. La fazione dei coloni si trovò in minoranza rispetto al resto dell’opinione pubblica israeliana, che si schierò con la comunità scientifica in nome dell’interesse generale. Nel caso delle squadre di calcio mi aspetto un risultato simile, anche perché se Israele non rispettasse la decisione della Fifa potrebbe perdere interamente l’accesso ai suoi campionati. E – conclude Konečný – non credo che l’opinione pubblica israeliana sarebbe favorevole a un simile sacrificio, per tutelare 5 o 6 squadre minori delle colonie».

Messa così, sembra che per i coloni ci sia poco o nulla da fare, anche perché le loro ragioni emerse finora non paiono particolarmente forti. Oltre a ribadire che non si deve mescolare calcio e politica, hanno detto che si lederebbe il diritto dei bambini di giocare a pallone. Ma, come viene spiegato ad esempio nella lettera degli eurodeputati, anche se la Fifa chiedesse e ottenesse l’esclusione dei club delle colonie dalla Ifa, “i residenti delle colonie potranno continuare a giocare a calcio sia propriamente in Israele, sia nelle colonie, ma al di fuori delle strutture Fifa”. Un’altra ragione che portavano i coloni era poi che dovesse decidere l’Onu e non la Fifa. Dopo la risoluzione Onu 2334 hanno cambiato idea.

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