Nel mondo del giornalismo c’è un settore che è ancora più in difficoltà degli altri e che, più di molti altri, sta pagando il duro prezzo della crisi. È il giornalismo investigativo, l’anima più libera e per questo mal vista della nostra professione, quella che va a ficcare il naso negli angoli più nascosti e remoti, che cerca di puntare lo sguardo verso gli anelli che non tengono, le storture, le ingiustizie e le contraddizioni della nostra società e che, proprio per questo suo ruolo scomodo, fa molta fatica a trovare i finanziamenti per continuare la propria missione.
Anche quest’anno, oltre a chi si lamenta c’è anche chi cerca di metterci una pezza. Stiamo parlando di DIG, il festival del giornalismo investigativo di Riccione, organizzato per il terzo anno dall’associazione DIG sulle ceneri del fu Premio Ilaria Alpi, un festival che con bellissima ostinazione continua il proprio prezioso lavoro di selezione e di costruzione di una rete che possa sostenere il lavoro delle decine di freelance che operano nel settore e che, sempre più spesso, si trovano a lavorare abbandonati a se stessi.
«L’Italia è un paese pieno di storie da raccontare, ma senza i soldi per produrre sul serio», ci raccontava l’anno scorso il direttore di DIG, Matteo Scanni, che in questi dodici mesi non ha cambiato opinione. Sì, perché l’Italia resta ancora un paese molto difficile per chi vuole scavare e raccontare storie scomode. Se da una parte il problema principale resta la carenza di interesse e di investimenti da parte dei produttori, dall’altra, quando anche qualche soldo si trova, ci pensa lo scacco matto della mancanza di copertura legale a far passare la voglia di provarci.
Di fronte a tutto questo, DIG ha aumentato gli sforzi e, confermati gli ormai tradizionali bandi per i DIG Awards che offrono ai vincitori 9mila euro divisi in 5 sezioni (trovate tutte le informazioni tecniche qui), confermato l’altrettanto tradizionale momento dedicato ai pitch di progetti in sviullupo e in preproduzione, uno spazio unico in Italia che offre al vincitore del contest 20mila euro per continuare a lavorare sulla propria idea, quest’anno aggiunge un ulteriore premio di mille euro intitolato alla Carta di Roma e dedicato ai lavori italiani dedicati alla migrazione che abbiano operato “nel rispetto delle indicazioni della Carta di Roma sul protocollo deontologico relativo a migranti, richiedenti asilo, rifugiati e vittime della tratta”.
A completare il quadro delle novità di questa terza edizione, di cui Linkiesta è anche quest’anno media partner, ci sono i grandissimi nomi — tra conferme e new entry — che compongono la giuria dei DIG Award, a cominciare dal presidente, Jeremy Scahill, uno dei più stimati reporter al mondo, inviato di guerra per anni e fondatore, insieme al premio Pulitzer Gleen Greenwal e a Laura Poitras, della piattaforma di informazione The Interceptor.
E Scahill non è l’unica novità. In giuria, oltre alle conferme storiche, tra gli altri, di Alberto Nerazzini, Alexandre Brachet di Upian, Riccardo Chiattelli di Laeffe, Andrea Scrosati di Sky, Corrado Formigli di La7 e Marco Nassivera di Artè, entrano anche Pino Corrias della RAI, Maggie O’Kane del Guardian, Morten Moller Warmedal, documentarsita e caporedattore della emittente norvegese NRK.
Oltre ai premi, alle proiezioni e agli incontri che puntelleranno i tre giorni del festival, il DIG continuerà quest’anno a investire sulla formazione continua dei giornalisti, offrendo più di venti corsi di aggiornamento e seminari gratuiti accreditati dall’Ordine nazionale giornalisti. Insomma, per il giornalismo investigativo, in Italia, non è ancora suonata la campana a morto e, malgrado i mala tempora che currunt, qualcuno ancora disposto a rimboccarsi le maniche e continuare a lottare, per fortuna, c’è ancora.