Taccola“Le startup non crescono perché le grandi imprese le ignorano”

Stefano Firpo, responsabile della policy del ministero dello Sviluppo economico: “Sul fronte delle startup innovative stiamo recuperando terreno. L’Italia ora è molto attrattiva. Ma mancano sia imprenditori che si occupino di venture capital sia l’apporto della Pa e delle imprese»

Ci sono diversi modi di vedere i dati sulle startup innovative, presentati dal ministero dello Sviluppo economico lunedì 13 febbraio in un evento organizzato presso gli spazi di Luiss Enlabs, in collaborazione con LVenture Group. Il primo è quello di vedere la crescita del numero (+31% in un anno) e degli occupati (+44% degli occupati), l’alto tasso di investimenti e la bassissima mortalità (circa il 5%). Insomma di vedere il bicchiere mezzo pieno. Però il bicchiere è anche parecchio vuoto, perché i problemi dell’“ecosistema” delle startup italiane, anche tra quelle etichettate come innovative (cioè che hanno requisiti minimi in termini di personale con laurea magistrale, investimenti in ricerca e sviluppo o brevetti), rimangono gravi. Uno su tutti: investimenti in venture capital limitati a 200 milioni di euro, meno di un decimo della Francia e Israele ancor meno del Regno Unito. Ma anche gli scarsi progressi sul fronte della cosiddetta “open innovation” da parte delle grandi imprese e della Pubblica amministrazione. E un sistema di incubatori ancora poco reattivo. Ne abbiamo parlato con Stefano Firpo, a capo della Direzione generale per la politica industriale, la competitività e le piccole e medie imprese del Mise.

Cominciamo dalle buone notizie che emergono dalla Relazione Annuale al Parlamento 2016 sullo Startup Act. Il numero di startup innovative è arrivato a 6.745, il tasso di mortalità è molto basso, c’è un discreto accesso al fondo centrale di garanzia e un tasso di investimenti molto superiore alla media delle imprese. Come giudica i progressi sull’efficacia della vostra “policy” sulle startup?

Credo che i progressi siano buoni. La policy ha centrato abbastanza il target su cui ci prefiggevamo di intervenire, ovvero imprese interessanti dal punto di vista dell’innovazione, che investono, che sono dedicate alla crescita. E che hanno profili di rischio di un certo tipo. Il nostro intento era di aiutare questo mondo a consolidarsi, a rafforzarsi e ad avere successo sul mercato. In questo sono molto incoraggianti i dati sull‘utilizzo degli strumenti della policy: risultano tutti usati, in qualche caso in modo molto diffuso. Questo è un risultato che non era scontato. Abbiamo costruito una policy che avesse un bouquet di strumenti a cui le imprese potessero ricorrere a seconda delle loro diverse esigenze.

Quali strumenti sono stati più utilizzati?

Uno è la recente possibilità di costituzione online delle startup: ormai il 40% si costituiscono in questa maniera. Abbiamo dati molto positivi sull‘utilizzo del Fondo centrale di garanzia per le Pmi. Altri dati molto significativi, purtroppo un po’ vecchi, riguardano l’utilizzo degli incentivi per gli investimenti in equity sulle startup. Così come molto interessanti sono quelli sull’utilizzo di alcune semplificazioni che permettono alle startup di costituirsi come Srl ma di operare come delle Spa. Infine abbiamo avuto buoni riscontri sui visti semplificati (per chi opera nelle startup italiane, ndr) e sull’equity crowdfunding. Sono quindi abbastanza soddisfatto di come sta andando la policy. L’ecosistema sta facendo sono progressi e l’Italia ha iniziato a recuperare un po’ del ritardo che aveva accumulato. Rimangono certamente tantissime cose da fare.

Elenchiamole.

Le startup crescono ma non alla velocità che sarebbe necessaria. Hanno grandissime difficoltà a intercettare la domanda di innovazione che c’è nel nostro sistema. Fanno ancora fatica a trovare capitali, soprattutto nel momento in cui hanno successo: quando hanno i primi successi, tendono ad andare all’estero a raccogliere i capitali. Quindi c’è ancora moltissimo lavoro da fare. C’è anche da raccontare i successi dell’Italia migliore su questo fronte.

Quali sono?

La policy italiana è considerata dall’Unione europea la seconda migliore policy in Europa. L’Italia ha messo in atto uno strumento molto potente, che deve muovere il sistema in maniera molto più massiccia rispetto ai recuperi necessari. Ci sono in questo senso dei segnali molto positivi che vengono dalle iniziative della Cassa Depositi e Prestiti, che finalmente prendono piede.

«Le startup crescono ma non alla velocità che sarebbe necessaria. Hanno grandissime difficoltà a intercettare la domanda di innovazione che c’è nel nostro sistema. Fanno ancora fatica a trovare capitali, soprattutto nel momento in cui hanno successo»

Sul Venture Capital il ritardo è evidente. Gli investimenti in Italia sono di appena 200 milioni (nel 2016), meno di un decimo di quanto avvenga in Francia e ancor meno del Regno Unito. Quanto possono spostare il quadro queste iniziative della Cassa Depositi e Prestiti?

Cdp ha in pancia un nuovo fondo da 200 milioni ed è in procinto di raddoppiare se non di triplicare il proprio fondo di venture capital. Questo vuol dire almeno raggiungere la Spagna: è l’obiettivo minimo che ci dobbiamo proporre. Poi c’è da ingaggiare il vero tema, su cui siamo ancora molto indietro: cioè come vedere il venture capital. In Italia è identificato con il mondo della finanza, peraltro speculativa e super-rischiosa. In realtà il Venture capitl è un mondo condotto e gestito dalle imprese. Finché non avremo imprenditori veri, che su questo mondo investono, vanno a cercarsi le startup e utilizzano queste startup per fare impresa, e non solo soldi, il nostro sistema continuerà a fare fatica. In Italia ci sono almeno 7mila realtà interessanti sotto questi profili. Si tratta di connettere questi mondi. L’indicatore dei ritardi del nostro ecosistema è un indicatore di bassa imprenditorialità. Non di bassa finanza.

Proviamo a ragionare sugli anelli deboli che non fanno crescere il sistema delle startup in Italia. Uno l’ha appena citato, quello del venture capital. Ce ne sono però altri. Nella relazione dello Sviluppo economico si tira in ballo la debolezza della domanda. Cioè la carenza di servizi richiesti dalla pubblica amministrazione e da una grande impresa lontana dall’open innovation, al di là delle parole. Si stanno perdendo delle opportunità?

Sì, è così. Si stanno perdendo opportunità. Se una grande impresa, al di là di dare capitali o meno, deve dare accesso all’innovazione e ai propri sistemi. Se così non avviene, il sistema resta bloccato. Questo vale anche per la pubblica amministrazione. Si fa una enorme fatica a introdurre elementi di innovazione, che spesso porterebbero alla riduzione della spesa. Gli ostacoli ci sono soprattutto quando l’innovazione avrebbe la capacità di cambiare alcuni paradigmi. Nella sanità, nel trattamento di alcune patologie come le cardiopatie, ci sono spazi enormi per la e-health, per la telemedicina. Ci potrebbero essere giganteschi risparmi da efficientamento della spesa. Sarebbe il primo mondo da aggredire, anche attraverso l’innovazione.

C’è bisogno di rivedere anche il sistema degli incubatori, che oggi sono visti da alcuni più come fornitori di servizi e che come accompagnatori nella crescita delle aziende?

Penso che il mestiere degli incubatori o degli acceleratori in Italia non sia facile. Anche le realtà che più si sono distinte fanno fatica, proprio perché il rapporto tra mercato e startup e tra startup e imprese consolidate è molto complicato. Spesso le stesse corporation non guardano agli incubatori come dei marketplace per acquisire innovazione. Tendono a fare da soli, a cercare da sé le loro opportunità in modi abbastanza chiusi. Questo è un peccato perché si perdono delle opportunità. Noi nel Cleantech abbiamo startup molto interessanti, così come nel Fintech, dove le banche stanno investendo molto poco.

Le nostre startup, pur se innovative, hanno un “Go to market” lento. Come si spiega questa lentezza e come si può porre rimedio?

Si spiega perché la domanda di innovazione non è così forte. Queste imprese fanno fatica a fatturare e poi fanno fatica a “scalare”, a entrare nei mercati e diventare fornitori di imprese. Spesso le nostre startup hanno business b2b e quindi hanno come clienti le imprese, mentre il b2c è complicato perché le piattaforme digitali sono già appannaggio di grandi realtà. È vero però che il mondo delle nostre startup è ancora un mondo dalle ambizioni limitate, anche se è un mondo che avrebbe la possibilità di navigare su mercati globali, non limitarsi a mercati locali.

«Il venture capital in Italia è identificato con il mondo della finanza, peraltro speculativa e super-rischiosa. In realtà è un mondo condotto e gestito dalle imprese. Finché non avremo imprenditori veri, che su questo mondo investono, vanno a cercarsi le startup e utilizzano queste startup per fare impresa, e non solo soldi, il nostro sistema continuerà a fare fatica»

La relazione del Mise di quest’anno ha potuto seguire l’evoluzione dei bilanci delle imprese presenti dall’inizio nel programma delle startup innovative. Che segnali avete colto?

Il 40% di queste cresce. Il 10% cresce anche bene.

I risultati sono in linea con le vostre aspettative?

Sì, però si può fare ancora di più. Mi stupisce l’altro lato della medaglia. Il fatto che il 55-60% a due anni dalla costituzione ancora fa fatica a fatturare. Non hanno metriche e in mancanza di metriche è praticamente impossibile raccogliere capitali.

La legge di bilancio 2017 ha previsto vari strumenti, tra cui un incremento delle detrazioni per gli investimenti in equity delle persone fisiche e un aumento del tetto di spesa detraibile. A queste si aggiungono le misure del Piano Industria 4.0. Ci dobbiamo aspettare che queste misure portino a un’accelerazione molto maggiore dei numeri degli investimenti?

Oggi se uno viene a investire in Italia trova un territorio abbastanza attrattivo. Le misure sulla ricerca, sulle startup, sull’iperammortamento, il patent box sono un bouquet che sostanzialmente permettono alle imprese di non pagare le tasse per diversi anni . Certo, bisogna avere dei business che nel giro di poco tempo abbiano successo. Se non si ha successo molte misure fiscali producono poco benificio. Ma per chi ha buone prospettive di successo sul mercato, a livello globale, non solo in Italia, l’Italia oggi è attrattiva.

Forse la principale critica alle misure per le startup messe in piedi negli ultimi anni riguarda il lavoro. Messe tutte insieme le 7.500 startup innovative tra soci e dipendenti danno lavoro a 35mila persone, di cui 9mila dipendenti. È un dato inferiore a quanto ci si potrebbe aspettare oppure questo è il business delle startup e bisogna abituarsi a questi livelli di occupazione?

Secondo me è un dato abbastanza buono. Se si pensa che la policy ha investito circa 50 milioni di euro in questi anni e ha creato un sistema che vale 600 milioni di fatturato e 35mila posti di lavoro, non mi sembra disprezzabile come risultato. Va poi considerato che questa policy è giovanissima. Nasce alla fine del 2012, si consolida nel 2013 ed è operativa sostanzialmente da due anni. Il potenziale inespresso è ancora grande.

Un’altra misura, quella delle Pmi innovative, dovrebbe servire come proseguimento dell’incentivo delle startup innovative. Su quel fronte c’è ancora più potenziale?

Sicuramente. Calcoliamo il potenziale delle Pmi attorno alle 25mila imprese, oggi sono poco più di 400. Il problema in quel caso è che la policy, per alcuni elementi anche molto distintivi, come gli incentivi agli investimenti in equity, ha avuto dei problemi, di notifica del decreto alla Commissione europea. Li stiamo risolvendo ma siamo un po’ ritardo, la policy purtroppo non è completamente operativa. Questo ha avuto necessariamente un effetto negativo sul suo utilizzo.

«Le nostre startup, quando hanno successo, trovano il mercato dei capitali in Inghilterra o in Germania e non da noi. Certo è un peccato: abbiamo messo le aziende nell’incubatore, le abbiamo fatti crescere, abbiamo contribuito al loro primo successo. Nel momento in cui c’è da capitalizzare questo successo, la capitalizzazione va in mano straniera»

Riguardo al venture capital, ci sono state tante acquisizioni di startup italiane da parte di investitori stranieri, a partire dal tedesco Rocket Internet. La risposta è la vostra policy o qualcuno sta pensando a barriere?

La policy serve per dare alle startup l’opportunità di andare sul mercato dei capitali e raccogliere investimenti in round importanti, da 2-3 milioni di euro. Da quel punto in poi c’è il mercato e purtroppo il mercato in Italia non ha una infrastruttura finanziaria adeguata. Quindi le nostre startup, anche quando hanno successo, trovano il mercato dei capitali su ticket così importanti in Inghilterra, in Germania e non da noi. Certo è un peccato: abbiamo messo le aziende nell’incubatore, le abbiamo fatti crescere, abbiamo contribuito al loro primo successo. Nel momento in cui c’è da capitalizzare questo successo, la capitalizzazione va in mano straniera.

La “policy” sulle startup durerà per molti anni o come in altri casi in Italia sarà limitata nel tempo?

Gli strumenti sono quasi tutti stabilmente operativi. Una delle vere novità che abbiamo fatto nella legge di Bilancio è stato rendere stabili gli incentivi agli investimenti in equity. Non hanno più una scadenza, sono stabili.

L’ultima domanda guarda a quello che sta succedendo nel mondo. Donald Trump negli Usa ha sminuito l’importanza del mondo delle startup e riportato alla centralità il manifatturiero classico. La strada che si sta seguendo all’interno del Mise è quella di credere ancora che le startup siano un modello di sviluppo da seguire?

Certamente, e lo sarà sempre di più indipendentemente da Trump. Il problema che Trump deve gestire è che spesso nella Silicon Valley ci sono imprenditori dell’economia digitale che si sono arricchiti in maniera spropositata. L’America non è stata ancora in grado di trovare un meccanismo di redistribuzione di questa tendenza. Un problema che la politica si deve porre.

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