Buzzi e Carminati, così il “mondo di mezzo” sputtana la politica

L'incredibile (ma evidente a pensarci) paradosso dell'inchiesta capitolina. Il mondo di chi delinque è più affidabile di quello della politica. Perché chi amministra, con i suoi traccheggi, maneggi, e ritardi annosi, ha perso ogni credibilità

E niente, questo “Mondo di Sotto” non finisce di stupire: a metà dell’interrogatorio di Massimo Carminati e alla fine di quello di Salvatore Buzzi (entrambi praticamente rei confessi dei traffici per aggiudicarsi lavori dal Comune, e farseli pagare) a uscirne con le ossa rotte non sono loro, ma il sistema politico romano. Dice Carminati: «Ci hanno dato lavori sapendo già che non ci avrebbero pagato. Se avessi conosciuto Lucarelli e il sindaco Alemanno, del quale non ho nessuna stima, sarei andato a buttargli giù la porta a calci visto che non ci pagavano». Dice Buzzi: «Eravamo un sistema perfetto che funzionava benissimo», e però per tenerlo in piedi, pagare gli stipendi, farsi versare il dovuto si dovevano distribuire soldi, consulenze e assunzioni come caramelle, sottoscrivere tessere per i congressi, fare favori, risolvere problemi, perché se no “Ciao còre”.

Chissà quanti piccoli e medi imprenditori romani falliti per un assegno comunale mai arrivato si saranno riconosciuti in quel racconto. Chissà quante associazioni, o cooperative. Postulanti per i bandi, e poi postulanti per i pagamenti, sempre in ritardo, sempre appesi al filo di decisioni imperscrutabili e delle sconosciute priorità della politica romana. Chissà quanti avranno pensato “gli butterei giù la porta a calci” senza poterlo fare, e oggi, davanti alle ricostruzioni delle sue star del Mondo di Mezzo si diranno: mbè? Tutto qui? E come pensavate che funzionasse Roma?

Sono i “non-criminali”, quelli che stanno ai domiciliari o liberi anziché nelle carceri di massima sicurezza, con limitate accuse di malversazione, a uscirne peggio. Loro, sì, suburra di potere, “clan” in senso classico, oltre le appartenenze e le etichette politiche

Nella Capitale c’è un modo di dire quando si deve recuperare un credito oppure ottenere il rispetto di un impegno. “Te serve uno zingaro”. Significa che dove la legge non arriva (e ormai, in certi settori, non arriva quasi da nessuna parte), l’unica sono le maniere spicce, lo zingaro, metafora di quello che ti piglia per il collo e ti obbliga a fare la tua parte con le buone o con le cattive.
Le ultime tappe del processo a Mafia Capitale danno a questa espressione una concretezza da vertigine, che va assai oltre i capi di imputazione. La mafia, diciamolo chiaro, intesa come rete illegale di controllo del territorio, degli affari, delle emergenze, dell’erogazione di soldi pubblici, non sembra quella che fa riferimento ai due protagonisti “delinquenti” della storia, ma piuttosto il mondo che li circonda e in cui si muovono per le loro faccende. Un sistema criminogeno dove certi metodi – i metodi “dello zingaro” – hanno successo perché sono riconosciuti come codice accettabile e persino affidabile.

«Nel Mondo di Sotto abbiamo tre soli comandamenti ma li rispettiamo. Nel Mondo di Sopra ne hanno dieci di comandamenti ma non ne rispettano nessuno», dice Carminati rispondendo alle domande del suo avvocato, in una sorta di rivendicazione etica del suo operato, ed è una spiegazione che fa rabbrividire dei motivi per i quali il suo gruppo e quello di Buzzi sono entrati come un coltello nel burro di certi affari romani.
Probabilmente, molti si fidavano più di loro che di soggetti con profili più ordinari, gente che – hai visto mai – poteva saltargli il ticchio di presentarsi a un commissariato o a un pm, denunciare un abuso, creare guai. Meglio gli ex-detenuti con una solida reputazione coatta. Meglio Buzzi, meglio Carminati.

Così, aspettando la prossima puntata degli interrogatori, i destini “tecnici” di questo processo – la tenuta dei capi di imputazione, le eventuali condanne, la loro distribuzione tra Mondo di Sotto e Mondo di Sopra – assumono sempre minor rilievo, e in primo piano finisce questo sconcertante affresco capitolino, dove gli imputati “criminali” anziché difendersi svicolando dalle accuse rivendicano il loro ruolo, la necessità di comportarsi così, e persino il rimpianto di non aver fatto di peggio, perchè – è il messaggio tra le righe – altro non si poteva fare.

E sono i “non-criminali”, quelli che stanno ai domiciliari o liberi anziché nelle carceri di massima sicurezza, con limitate accuse di malversazione, a uscirne peggio. Loro, sì, suburra di potere, “clan” in senso classico, oltre le appartenenze e le etichette politiche, anche se in giacca e cravatta e talvolta con l’auto blu istituzionale.

X