Carlo Bordoni: «La modernità è finita. E non sappiamo ancora cosa ci aspetta»

Il sociologo e giornalista toscano, autore insieme a Zygmunt Bauman di "Stato di crisi", torna in libreria con un saggio edito da Il Saggiatore e intitolato "Fine del mondo liquido", ci abbiamo fatto due chiacchiere

Nell’estate del 1873, qualche anno prima di darsi alla compravendita di armi e, forse, anche di schiavi, Arthur Rimbaud, il più giovane dei grandi poeti francesi maledetti, scrisse una delle sue migliori opere. Si intitola Une saison en enfer, “Una stagione all’inferno”, e, a un certo punto, il poeta scrive una frase che ci ricordiamo più spesso di altre: «Il faut être absoulement moderne». “Dobbiamo essere assolutamente moderni”.

Sono passati più di 140 anni da quell’estate e oggi, nel 2017, quella frase ci mette di fronte a una domanda che insegue da decenni gli studiosi di tutto il mondo: i grandi cambiamenti che abbiamo vissuto, e che stiamo ancora attraversando, che effetto hanno su quell’epoca che chiamiamo Modernità? Siamo ancora della stessa pasta di Arthur Rimbaud o l’attraversamento del Novecento — con tutto quel che ha significato — ci ha trasformato in un’altra cosa? Possiamo ancora definirci moderni?

Carlo Bordoni, sociologo toscano e giornalista, amico e collaboratore di Zygmunt Bauman, con cui ha scritto Stato di crisi nel 2014, crede di no: non possiamo più definirici moderni. Un’epoca si è chiusa qualche decennio fa e quello che stiamo vivendo è un periodo di interregno. Non sappiamo ancora quanto durerà, dove ci porterà, cosa troveremo in fondo a questa grande trasformazione della società e dei nostri stessi cervelli. Sappiamo solo che sta succedendo, e che dobbiamo cercare di avere un atteggiamento il più lucido possibile per affrontare il futuro.

Professore, perché non possiamo più dirci moderni?
Bella domanda da cui partire, una domanda che tra l’altro è stata il motivo di una grande diatriba tra me e Bauman. Lui era convinto che fossimo ancora all’interno della modernità, seppur in una nuova fase, la famosa modernità liquida, mentre io non sono d’accordo. Io credo che siamo proprio alla fine di un’epoca, quella moderna, e che la liquefazione di cui parlava Bauman non sia soltanto uno stato della modernità, ma che sia esattamente l’effetto della fine di un’epoca e l’inizio dell’attesa di un tempo nuovo, come se questa liquefazione fosse il passaggio necessario per prepararsi a qualcosa di nuovo che ancora non sappiamo cosa sia.

Cos’era la modernità? Da cosa ci stiamo allontanando?
La modernità è stata un’epoca di speranza per l’Umanità, un periodo segnato da visioni del mondo che guardavano in avanti: razionalismo, illuminismo, positivismo, tutti modi di affrontare il passaggio del tempo con fiducia, la fiducia per il progresso. La modernità nasce per un motivo preciso: dare delle regole alla società portando avanti uno sviluppo, chiamato progresso, prima di tutto economico. In questo c’era la rottura con il periodo precedente, cioè quel che chiamiamo Rinascimento, e prima ancora dal Medioevo. Diciamo che è stata un’epoca di grandi promesse.

Cosa provoca una rottura di queste dimensioni?
Nuove idee prima e la rivoluzione industriale poi. Le nuove idee in particolare sono quelle che, per la prima volta, fanno pensare al futuro con una accezione positiva, cosa che non aveva mai avuto.

Anche le religioni però pensano al futuro — dopo la morte — facendo promesse. Che differenza c’è?
A differenza delle promesse delle epoche precedenti, quelle della modernità hanno le radici ben piantate nella realtà, sono promesse per un miglioramento delle condizioni di vita su questa terra, miglioramenti visibili anche nell’arco della vita, e non più rimandati dopo la morte. Il marxismo stesso muove da queste premesse: realizzare la felicità umana qui e adesso, non nell’eternità di qualche paradiso. Questa è la modernità, vuol dire progresso, libertà e razionalità. Vuol dire costruire una cosa nuova.

Poi cosa è successo? Quando è iniziato il declino di questa cosa nuova?
Come tutte le dinamiche, anche quelle macroscopiche, anche la modernità ha avuto un momento di ascesa e uno di decadenza. Che la modernità sia finita non lo diciamo solo adesso, nel 2017. Anche perché in realtà, già da quando Lyotard iniziò a parlare di postmoderno, la parabola era già in discesa, come dimostra il prefisso post-. Il postmoderno è un momento di frattura, che riconosce che la modernità è finita e che inizia qualcosa che è dopo, anche se guarda al passato. Il guardarsi indietro e non più il guardare avanti, che dal postmoderno arriva fino alla sensazione tardo novecentesca di fine della Storia. Questi sono tutti sintomi della fine della modernità.

Un sguardo rivolto all’indietro, come l’Angelus Novus di Benjamin?
Esatto. Questo movimento è fondamentale, perché ci fa capire che c’è stato un cambiamento di visione. Bauman stesso, nel suo ultimo libro che è uscito, che si chiama Retrotopia, conferma questo fatto e dice un segnale di questo movimento è il fatto che non si guardi più a utopie del futuro, ma ci si rivolga indietro verso utopie del passato. Addirittura si sente ritornare una strana nostalgia per la società premoderna e sparpagliata, dove non c’era solidarietà tra i popoli, che è poi una delle cose migliori che ha portato la modernità.

Un altro ingrediente prettamente moderno che sta sfumando è la società di massa, cosa è successo?
È vero, stiamo uscendo dalla società di massa, che è stata così importante nel primo Novecento, rappresentando la base per l’avvento e il successo dei totalitarismi, e approdando anche nel secondo dopoguerra grazie ai mezzi di comunicazione.

Quando e come è successo?
La massa ha iniziato a creparsi quando i mezzi di informazione si sono moltiplicati, quando l’espressione è diventata più libera e ha rotto quella divisione statica dall’alto verso il basso. È emersa sempre di più una comunicazione dal basso verso l’alto, una comunicazione “a rete” di cui già i francesi negli anni Sessanta se n’erano accorti. Insomma, la massa non è più massa da quando ogni singolo elemento che la compone, ogni individuo, ha la possibilità di esprimere una propria idea o decidere qualcosa esprimendolo non più in maniera univoca, ma reticolare.

È questo passaggio che ha portato a un crollo del ruolo del valore dell’autorità e dell’autorevolezza?
Probabilmente sì, ma è una dinamica molto interessante che andrà studiata e di cui oggi vediamo soprattutto il lato negativo, anzi direi proprio che stiamo assistendo al peggio. Anche l’effetto del Movimento 5 Stelle mi sembra assimilabile a questa dinamica: ora, per la prima volta, donne e uomini senza particolare preparazione specifica possono cambiare il futuro degli altri. E questo non è detto che sia sempre una cosa positiva. C’è il lato se vogliamo comunitario del prendere le decisioni che potrebbe anche essere positivo, ma non sappiamo ancora se porterà a qualcosa di buono. In questo caso dobbiamo stare a vedere cosa succederà. In ogni caso, anche questo è uno dei sintomi della fine della modernità, di cui l’autorevolezza era uno degli assi principali.

Un altro asse che si sta modificando radicalmente e che avrà conseguenze notevoli è quello del lavoro…
Sì, il lavoro è stato il baricentro più importante della vita dell’uomo dell’epoca moderna, nel bene e nel male. Il lavoro è quello che ha giustificato e dato un ruolo e un significato alle persone all’interno della società, ma è finito anche per essere legato all’aberrazione della modernità, pensiamo ai campi di concentramento. Quello stesso lavoro, attorno al quale tra l’altro si era anche creata la coscienza di classe, oggi è minacciato da più versanti, primo tra tutti la tecnologia, e sembra aver imboccato una strada senza ritorno. Per questo il tema della “fine” del lavoro sarà uno dei più importanti dei prossimi anni.

Saremo pronti ad affrontarlo?
Temo di no. La politica è ossessionata dal tema del lavoro, tanto che Renzi ha appena lanciato lo slogan del Lavoro di cittadinanza e la minoranza PD che si è scissa ha chiamato il nuovo partito proprio Articolo 1, richiamandosi a quel primo articolo della Costituzione che pone il lavoro al centro della vita del nostro paese. Sono fuori dal tempo e su questi temi si stanno facendo superare da Grillo e dai 5 Stelle, che per quanto non mi convinca per niente la loro proposta di reddito di cittadinanza, è innegabile che abbiano almeno individuato il problema.

E come ne usciamo?
Dobbiamo cambiare il nostro modo di vedere le cose, la nostra testa. È normale, è finita un’epoca e stiamo aspettando che ne inizi un’altra. Anche gli uomini premoderni avevano una testa completamente diversa da quelli che sono venuti dopo. Ci vorrà tempo, probabilmente ben più di una generazione, forse tre o quattro, per fare in modo che la nostra testa cambi. È l’interregno, e non sappiamo ancora quando finirà.

«Sì, il lavoro è stato il baricentro più importante della vita dell’uomo dell’epoca moderna, nel bene e nel male. Quello stesso lavoro, attorno al quale tra l’altro si era anche creata la coscienza di classe, oggi è minacciato da più versanti, primo tra tutti la tecnologia, e sembra aver imboccato una strada senza ritorno. Per questo il tema della “fine” del lavoro sarà uno dei più importanti dei prossimi anni»

Quanto tempo ci vorrà?
È impossibile saperlo. Però, guardando al passato e curiosando su quanto sono durate le ultime stagioni di passaggio tra un’epoca e l’altra, emerge il fatto che i tempi siano tempi lunghi. Il ciclo di rinnovamento è molto ampio. Prendi il caso proprio della modernità, la cui partenza adesso situiamo intorno al 1600, ma che, all’epoca, non era percepita così. Un qualsiasi europeo del Seicento non ne poteva avere idea di quel che stava accadendo. È soltanto a posteriori che abbiamo capito.

Come funziona il ciclo di rinnovamento?
Sostanzialmente qualcuno inizia a sentire i sintomi di qualcosa sta cambiando, lo inizia a sognare — per la premodernità possiamo pensare a un Thomas Moore e alla sua Utopia che arriva un secolo prima della modernità — poi arriva chi lo struttura in un’idea, chi lo analizza, poi, anche decenni dopo, succede qualcosa che cambia il paradigma della realtà e solo dopo che quel paradigma è cambiato viene intaccata la percezione della gente, la testa delle persone comuni. È un processo molto lungo, può durare anche due secoli.

A che cambiamento simile possiamo pensare nella Storia?
Gli storici li chiamano great divide e ce ne sono stati molti nella storia, sono i passaggi epocali. Per esempio, uno è stato la scrittura, che ha letteralmente cambiato la testa delle persone, ma per farlo ci ha messo dei secoli.

E il digitale?
L’avvento del digitale è stato l’ultimo great divide, assolutamente. Ha cambiato la testa delle persone in maniera profondissima e anche molto più rapida del solito, nel giro di pochi anni. Tutto questo ci sta preparando a un cambiamento che avverrà, e sta in parte certamente già avvenendo, nel prossimo futuro. Sarà una frattura che possiamo soltanto immaginare nella sua probabilità, ma non nella sua essenza.

Quale sarà il ruolo delle tecnologie in tutto ciò?
Il loro impatto sarà devastante e penso proprio alla categoria del post umano, che ci pone di fronte una quantità di sfide, di inquietudini e di problemi inediti. L’uomo non sarà soltanto un uomo, sarà un incrocio, avrà anche parti bioniche, robotiche. È già così e lo sarà sempre di più. Abbiamo iniziato con un trapianto di cuore, nel 1982, e chissà dove arriveremo. È un tema affascinante, ma anche inquietante, perché ci pone di fronte a temi etici di portata veramente epocale.

Come ce lo possiamo immaginare quel futuro?
Possiamo immaginarci tutto e il contrario di tutto. È impossibile prevedere dinamiche storiche in atto. Quello che possiamo fare è prepararci mentalmente, allenarci all’apertura mentale piuttosto che alla chiusura che in questo periodo è paradossalmente tornata di moda sotto forma di questi nuovi nazionalismi populisti à la Le Pen, à la Trump, à la Salvini.

Non è antistorica questa chiusura?
Tendenzialmente sì, come sul versante del lavoro, la tendenza sembra essere quella della globalizzazione, iniziata ormai da qualche decennio. Sembra un processo inarrestabile, è anche possibile che disinneschi questa nuova ondata di nazionalismo e di chiusura, ma la verità è che non possiamo sapere se questo avverrà o no.

Questa incertezza è la cifra principale l’interregno?
Sì, l’interregno serve proprio per dichiarare che siamo in un momento di trasformazione, quindi anche di sperimentazione. Non possiamo sapere cosa di quello a cui stiamo assistendo troverà spazio nella nuova epoca che ci aspetta alla fine dell’interregno. È un ingranaggio che si è messo in moto, e spostandosi digrigna, cigola, fa dei rumori che sono essi stessi il populismo. È quando l’ingranaggio si sarà fermato che potremo vedere il nuovo assetto, la nuova epoca.

Quindi non è detto che vinceranno i Trump e le Le Pen?
No, per niente. Trump è chiaramente una fase da interregno. È antistorico, è quasi premoderno. Il concetto di interregno è importante in questo caso, perché quello che stiamo vivendo non è niente di definitivo, è di passaggio, in cui le normali tendenze storiche vengono sovvertite.

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