Se il nome Bubble Tea non vi dicesse niente, non preoccupatevi. Non aveva idea di che cosa stesse per provare neanche Hillary Clinton, quando nell’aprile 2016, in un giro elettorale nel Queens, New York, si ritrovò ad assaggiare quello che lei definì un tè “chewy”, da masticare. Disse che le piacque, ma il viso diceva tutt’altro. Il fatto è che per i giovani di origine asiatica, negli Stati Uniti come in Europa, questa strana bevanda è ormai un pezzo di identità e il giro elettorale non poteva ignorarla. Non importa che sia sempre più messo sotto accusa per la quantità di zuccheri che ogni beverone contiene. Né che il boom negli Stati Uniti non sia più al suo picco, toccato un paio di anni fa. Il “bubble tea”, o boba tea, o pearl tea, è ormai parte del paesaggio in molte parti del mondo: negli Stati Uniti ma soprattutto nella sua patria, Taiwan. Di che stiamo parlando? Di una bevanda inventata alla fine degli anni Novanta a Taichung, a quanto pare nel locale Chun Shui Tang Teahouse (anche se c’è un concorrente che rivendica la paternità). Uno dei gestori, Liu Han-Chieh, decise che il modo in cui si beveva il tè sull’isola, aggiungendo del latte, poteva subire una variazione, con l’aggiunta di alcune palline di tapioca. Fu un successo e ben presto la bevanda si trovò associata a dei piccoli locali specializzati. Dopo Taiwan si diffuse a Tokyo, dove i localini si moltiplicarono. All’inizio degli anni Duemila arrivò negli Stati Uniti, dove nel 2002 venne identificato – a ragione – come uno dei grandi trend dei consumi per gli anni successivi. Di catena in catena, le formule cambiarono, ma non di troppo: l’essenza è sempre quella di un bicchierone di plastica con una cupola nella parte superiore (sembra che derivi da questo il termine “bubble”, più che dalle palline sul fondo del bicchiere), che contiene tre elementi: tè, latte o un misto dei due; uno sciroppo, di frutta o crema; delle palline gommose, o topping, che possono essere di tapioca (in genere colorate di nero), di frutta o crema. La novità del gusto sta proprio in queste palline morbide, da tirare su con delle cannucce formato extra-large e da masticare come fossero gommose.
Anche Hillary Clinton dovette provare un bubble tea, durante le presidenziale del 2016. Disse che le piacque, ma il suo viso diceva tutt‘altro
Tutto questo, ora, è arrivato anche in Italia. Per la verità in quartieri ad alta densità di cittadini di origine asiatica, come via Paolo Sarpi a Milano, ci sono già da qualche anno. Ma l’esplosione è arrivata ora e si accompagna alla passione milanese per il “matcha”, una varietà di tè verde. Nella sola Milano almeno cinque locali si sono specializzati: Frankly Bubble Tea and Coffee, QQTea Taiwan Bubble Tea, Boba, Chateau Dufan. Molti hanno origini e frequentazioni etniche, ma che qualcosa sia cambiato e che i confini si stiano estendendo lo dice la storia di Mister Tea, aperto nella zona Città Studi. A fondare il locale, aperto nel settembre 2016 e che si ripromette di diventare una catena nei prossimi anni (esiste già un laboratorio da cui partono le spedizioni a domicilio), è stato un ex dipendente della società di consulenza Pwc (Pricewaterhouse Coopers), Stefano Scaratti. Ora 35enne, da ragioniere si occupava di fiscalità e bilanci. In settimana giacca e cravatta, nel tempo libero nei costumi da cosplayer, spinto dalla passione per i manga e tutto quello che riguardava il Giappone. È proprio durante un viaggio a Tokyo, racconta, «vedevo questi locali a pochi metri uno dall’altro», finché «è cambiato qualcosa e ha iniziato a farsi strada dentro di me il desiderio di dare vita a qualcosa di nuovo e di cambiare». Di viaggi ne sono seguiti altri, soprattutto a Taiwan per selezionare i fornitori di materia prima, a partire dal tè. Al resto ha pensato la compagna-socia, Antonella Sinigaglia, designer che ha trasferito lo spirito manga nella grafica del locale. Il target sono i ragazzi universitari, i ragazzi asiatici, il pubblico femminile, a cui vengono rivolti in particolare le versioni più leggere di quella che negli Stati Uniti è stata etichettata come una “bomba di zucchero”. Tra le versioni che vengono identificate come più sane c’è quella al taro, un tubero originario delle Filippine a cui sono attribuite proprietà digestive. Di rimpianti per ora non c’è neanche l’ombra, piuttosto c’è l’idea di mettere a frutto quanto imparato negli anni dietro la scrivania. Dove si vede la società tra cinque anni? «Come Starbucks, naturalmente», dice Antonella Sinigaglia.
Il trend è di quelli promettenti. Scrive la società di consulenza Euromonitor International: «L’influenza delle generazioni più giovani di italiani, in particolare dei Millennial, tra i 20 e i 34 anni, è evidente in maniera sempre maggiore nella domanda per prodotti di consumo, inclusi i soft drink. Il loro spirito d’avventura e la volontà di sperimentazione ha portato al boom dei sapori esotici in molte categorie di alimenti e bevande». Così si spiegano, aggiunge la società di consulenza, il forte andamento di prodotti a base di papaia, mango, ma anche dell’acqua di cocco. Inoltre la curiosità di questo gruppo di consumatori li rende ricettivi verso i prodotti etnici. «Il caso dei drink asiatici è esemplare – si legge -. Si sono originati in Paesi del Sud-Est asiatico come la Cina e la Thailandia e hanno ricevuto una ricezione positiva da parte dei consumatori, crescendo nello spazio sugli scaffali (deinegozi) ed espandendo la distribuzione in Italia». Se oggi tutto questo è pura nicchia (stiamo parlando di circa 400mila litri venduti, contro i 2,5 miliardi di litri di tutte le bibite gassate vendute in Italia, fonte Euromonitor), «nei prossimi 5-10 la generazione più giovane di italiani prenderà gradualmente il centro della scena nell’influenzare i prodotti di consumo, con i loro bisogni e potere d’acquisto peculiari». Con il 40% di disoccupazione giovanile tutto è relativo, ma la curiosità va ben oltre i limiti dei portafogli.