TaccolaSpiacenti, Macron non sarà il sindacalista dell’Europa del Sud

Il candidato di En Marche è europeista ma la sua priorità è rinsaldare il legame con la Germania. Il punto più chiaro della sua agenda sull’Europa è il rispetto del Fiscal Compact. Ma la sua agenda sugli investimenti comuni e sulla Difesa europea sono una svolta vera

BERTRAND LANGLOIS / AFP

Piace a tutti, Emmanuel Macron: ad Angela Merkel, a Wolfgang Schäuble, a Martin Schulz, a Sigmar Gabriel (con cui ha scritto un documento programmatico sull’eurozona) in Germania. E a Matteo Renzi e Carlo Calenda in Italia. Piace a troppe persone con idee molto diverse sull’Europa, diciamolo, e un motivo c’è: se non ci sono dubbi sul fatto che sia un europeista convinto – le immagini con le bandiere europee durante il suo discorso di domenica sera valgono più di mille parole – il suo parlare di «conciliare responsabilità e solidarietà» dentro l’Eurozona lascia il campo a interpretazioni benevole da entrambi i lati delle barricate. Il candidato lo sa e sa che non avrebbe senso entrare nei dettagli di proposte che andranno comunque negoziate con gli altri partner, a partire da Berlino. Il fatto è che su questioni chiave del suo programma, come la creazione di un ministro delle finanze dell’Eurozona, le interpretazioni sono tutto: può essere inteso come uno strumento di controllo o uno strumento solidarietà all’interno dell’area euro. Anche nel caso di quella proposta, a mettere il cappello sono stati in tanti, a partire dallo stesso ministro delle finanze tedesco Schäuble.

Qual è quindi la posizione di Macron sull’Europa? Non c’è dubbio che il punto di partenza sia una strada verso una maggiore integrazione europea e una cessione di sovranità da parte dei Paesi. Nel suo programma ci sono punti molto riguardanti l‘Unione e l’euro. Alcuni sono poco più che simbolici, come l’estensione del programma Erasmus degli studenti. Altri sono più sostanziosi ma già presenti nelle iniziative della Commissione, come la creazione di un mercato unico dell’energia e dell’economia digitale. Altri ancora sono più pesanti, come l’istituzione di un fondo comune per la Difesa europea. Chiaro è poi il richiamo alla necessità di incrementare gil investimenti comunitari ben al di sopra del livello previsto dal piano Juncker, come dichiarato di recente in un’intervista a Les Echos. E l’indicazione che il mezzo per arrivare a questo sia proprio la creazione di un ministro delle finanze dell’area euro. Ma basta scendere di qualche riga per capire come la priorità sia il rinsaldamento dell’asse con la Germania e che per arrivare a questo obiettivo il percorso prevede il rispetto del Fiscal Compact. L’accordo intergovernativo non viene citato nel programma di Macron (che nel 2012 contribuì a redigerlo, come ha ricordato sul Corriere della Sera Enzo Moavero Milanesi, all’epoca ministro per gli Affari europei), ma è chiara la volontà di rispettarlo, dal momento che il punto più netto del programma economico, alla voce Bruxelles, sia il ritorno a un rapporto deficit/Pil al di sotto del 3%, dopo che per anni la Francia lo ha sforato. Per arrivarci la strada è quella di una spending review da 60 miliardi (agendo su sanità e sussidi di disoccupazione), bilanciata da un piano di investimenti da 50 miliardi, di cui 15 sulla formazione dei lavoratori. È quindi molto arduo che il probabile neo-presidente si batta per un ammorbidimento del Fiscal Compact al fianco dei Paesi dell’Europa del Sud che lo vorrebbero cambiare, magari già alla fine di quest’anno, approfittando dell’occasione della trasformazione in trattato di quello che oggi è un accordo intergovernativo.

«Sul fiscal compact Macron ha una visione più bilanciata rispetto a quella dei critici espliciti come Melenchon o Le Pen», commenta Grégory Claeys, research scholar del think tank Bruegel di Bruxelles. «Nella sua visione il quadro fiscale dell’Eurozona è imperfetto, ma non penso che vorrà rivisitarlo. Penso che abbia piuttosto un piano in due tempi: prima riacquisire credibilità nei confronti della Germania, rispettando le regole. E solo in seguito rivendicare il rispetto delle regole e chiedere delle modifiche». Non si tratterebbe però di cambiare l’accordo, aggiunge Claeys. «Indipendentemente da quel che pensava nel 2012 (quando divenne vice segretario generale della Presidenza della Repubblica, ndr), penso che ora si sia reso conto che il consolidamento fiscale (previsto dal Fiscal Compact, ndr) sia troppo veloce in Europa e anche in Francia. La soluzione potrebbe non essere quella di cambiare le regole ma di rendere queste regole complementari con una capacità fiscale dell’Eurozona oppure qualche misura sulla disoccupazione. Non so quale fronte prenderà ma saranno misure per rendere meno strette le maglie fiscali per i Paesi».

«Penso che Macron abbia un piano in due tempi: prima riacquisire credibilità nei confronti della Germania, rispettando le regole. E solo in seguito rivendicare il rispetto delle regole e chiedere delle modifiche. Ma non chiederà la fine del Fiscal Compact, piuttosto un suo affiancamento con altre misure per rendere meno strette le maglie fiscali per i singoli Paesi»


Grégory Claeys, research scholar del think tank Bruegel di Bruxelles

Che la priorità di Macron finirà per essere quella di ricostruire un rapporto sfilacciato con Berlino è anche opinione di Andrea Goldstein, direttore generale del centro studi Nomisma. «Penso che sceglierà di sposare l’asse tedesco, per due motivi – commenta -.Il primo è che è meglio sposare l’asse con chi è forte. La Francia, con tutti i suoi problemi, cresce molto più dell’Italia e con Berlino può ancora essere l’asse forte in Europa. Il secondo è legato alla filosofia di base di Macron».

Per comprendere questa filosofia di base bisogna guardare al suo primo consigliere economico, Jean Pisani-Ferry, professore della Hertie School of Governance di Berlino e della Sciences Po di Paris. Il fondatore ed ex direttore del centro Bruegel di Bruxelles è «il più europeista degli europeisti», commenta Goldstein, ma è anche noto per un metodo che si potrebbe chiamare “do ut des politico ed economico”: «Vedo l’impronta di Pisani-Ferry quando Macron dice che per cambiare l’Europa e rendere meno stringente l’austerità bisogna prima fare degli sforzi, per far crescere di più la Francia e per convincere i tedeschi», commenta Goldstein. Il nome di Pisani-Ferry, continua Goldstein, «vuole dire eurobond, governance dell’eurozona più chiara, con un ministro dedicato, vuol dire un tentativo di avere un budget europeo o almeno dell’Eurozona; vuol dire una geometria variabile del processo di integrazione, che può avvenire a velocità diverse».

Se gli eurobond non sono entrati esplicitamente nel programma di En-Marche, c’è invece la creazione di un ministro delle finanze europeo. La novità è che questa figura dovrà essere nella visione di Macron sotto il controllo di un Parlamento espressione degli europarlamentari dei Paesi dell’Eurozona. Questo ministro dovrà gestire un bilancio, aspetto che viene pure esplicitato nel programma: «Proponiamo di creare un budget per l’area euro con tre funzioni: futuri investimenti, assistenza finanziaria di emergenza e risposta alle crisi economiche. L’accesso a questo bilancio sarà condizionato al rispetto delle regole comuni in materia fiscale e di sicurezza sociale (per evitare il dumping nella zona euro)». Torna quindi il concetto di bastone e carota. Più di rottura, per quanto vago, è il terzo e ultimo punto del capitolo “La crescita dell’Europa”: «Ci sarà bisogno di creare una piattaforma dei diritti sociali europei, definendo degli standard minimi riguardanti il diritto all’istruzione, alla copertura sanitaria, all’assicurazione contro la disoccupazione o al salario minimo».

L’impronta sul programma di Macron di un economista europeista come Jean Pisani-Ferry è evidente: si ritrova nella mutualizzazione del debito, attraverso un’emissione di bond europei. E soprattutto nella creazione di un ministro delle finanze europeo

Altre posizioni che fugano i dubbi sul fatto che l’europeismo del candidato di En-Marche all’Eliseo non sia di facciata si ritrovano nel programma: il rafforzamento delle forze di polizia ai confini europei (con 5.000 persone mobilitate dalla nuova Agenzia europea per le guardie di frontiera e guardia costiera). Una sede europea permanente, responsabile della pianificazione e controllo delle operazioni di difesa europee. La creazione di un Consiglio di sicurezza europea. L’istituzione di un sistema europeo di informazione per facilitare le azioni di intelligence. La creazione di un un fondo europeo di venture capital per sostenere la crescita delle startup, con una dotazione di almeno 5 miliardi di euro. Varie norme a favore dell’ambiente. Fino a una serie di regole anti-dumping e di natura più protezionistica, a difesa dell’Ue. Come un “Buy European Act”, che limiti l’accesso agli appalti pubblici europei alle aziende che hanno almeno la metà della produzione in Europa; o uno “strumento di controllo degli investimenti esteri in Europa”, che preservi gli interessi europei in settori strategici. Passaggi che fanno capire come il candidato abbia un’idea di economia aperta ma con forti limiti.

Rispetto a tutto questo orizzonte politico nei confronti di Bruxelles, la politica dei pugni sul tavolo portata avanti dal governo Renzi negli ultimi due anni appare lontana. «L’Italia ha due ottimi motivi per avercela con Bruxelles e il dogmatismo – conclude il direttore generale di Nomisma -. Il primo è che siamo tra i pochi Paesi che rispetta sempre gli impegni europei. Il secondo è che siamo in prima linea sul fronte dei rifugiati. Il problema dell’Italia, tuttavia, non è solo rispettare i vincoli fiscali ma ripartire con la crescita. E lì c’è la grossa debolezza dei due “macronisti” italiani, Renzi e Carlo Calenda, che non hanno spinto sulle riforme strutturali».

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