Pagnoncelli a tutto campo: «L’Italia è un Paese conservatore e populista. E Renzi sbaglia a voler votare presto»

Intervista al re dei sondaggisti: «Il tema centrale della prossima campagna elettorale? Il lavoro. Un governo Renzi-Berlusconi? Difficile e indigeribile. I Cinque Stelle? La gente ce l’ha con la politica, cresceranno ancora»

Numeri, numeri e ancora numeri. Si avvicinano le elezioni in Italia? Appare sempre più probabile. Ecco allora la persona giusta per capire dove siamo e dove andiamo (in termini di risultati). Ma è anche l’occasione per un ragionamento più ampio sui sondaggi, sugli umori dell’opinione pubblica. In fondo una conversazione utile anche per capire cosa ci frulla in testa. Nando Pagnoncelli ci aiuta a capire quello che pensiamo oggi che forse non penseremo domani. Partiamo però dai grandi appuntamenti politici internazionali del recente passato. In Francia tutti gli istituti hanno previsto la vittoria di Macron, mentre moltissimi avevano sbagliato su Trump.

È la rivincita del sondaggio, Pagnoncelli?
Non direi una rivincita. Piuttosto una conferma di un elemento tipico del nostro lavoro. Molti sono gli elementi che riducono la capacità previsiva di un sondaggio, alcuni di tipo metodologico, altri di carattere sociale. Il primo tema serio è la rappresentatività dei campioni: oggi è impensabile raggiungere tutti con un solo strumento, anche perché molti si sottraggono all’intervista. Questo è particolarmente vero per i più giovani e per i ceti più dinamici. Abbiamo quindi dovuto “ibridare” le tecniche e spesso usare le neuroscienze, proprio per evitare di sbagliare, per quanto possibile. Il secondo tema è tutto nel cambiamento profondo del rapporto con la politica, che produce un fenomeno “carsico” nell’elettorato: una parte di esso tende a sparire, per poi tornare fuori alla vigilia delle elezioni. Nel frattempo però è molto difficile capire cosa pensano queste persone, proprio perché la politica non è più un tratto identitario forte. Oggi la politica è un frammento dell’identità e nemmeno il più importante. Ma c’è anche un terzo punto, che definirei di “desiderabilità sociale”

Cosa intende?
Quando Trump in campagna elettorale fa una battuta sessista noi registriamo subito un calo nei sondaggi, ma semplicemente perché la gente ha un momento di vergogna nel dire che avrebbe votato per lui. In Colombia al referendum sulla pacificazione con le FARC (svoltosi nel passato mese di ottobre, ndr) è successo lo stesso: tutti o quasi favorevoli nei sondaggi, ma nell’urna vince il No: molti si vergognavano a passare per “nemici della pace”. Quindi le impressioni del momento non sempre diventano voto coerente. E poi c’è l’astensione, che, ad esempio, spiega il risultato inglese su Brexit. Perché tutti sbagliano le previsioni? Perché capiscono che i giovani sono per il “remain”, ma nessuno coglie che in gran numero decidono di non votare. Così, sul filo, vince il “leave”. Vorrei concludere su un punto che mi sta molto a cuore. C’è un tema di responsabilità sociale nel nostro modo di proporre numeri e risultati. Non possiamo accettare di dover dire per forza chi vince quando la situazione non è definita. Nel ’95 realizzammo gli exit polls per la Rai. Alle regionali arrivò il Tg4 di Emilio Fede con le bandierine colorate sulla mappa, proponendo certezze a pochi minuti dalla chiusura delle urne. Noi avevamo cinque regioni incerte, nelle quali non riuscivamo a dire chi vinceva. Il direttore di allora del Tg1 mi attaccò pesantemente, accusandomi di fare male il mio lavoro. Io però, oggi, come allora, dico che se la situazione è incerta va detto senza infingimenti o trucchetti. Anche perché, alla fine, la realtà finisce per smascherare chi ha fatto il fenomeno. E responsabilità sociale vuol dire anche tenere conto che i sondaggi non solo descrivono, ma anche influenzano. E non poco.

Quanto e come pesano i social network, soprattutto nella formazione delle opinioni dei più giovani?
La televisione mantiene una sua forte centralità. Il 60 % degli italiani prende da lì le informazioni più importanti per decidere cosa fare, soprattutto in materia di voto. Però via social si possono accompagnare, alimentare in modo assai efficace “ondate” di opinione. Anche perché, va sempre ricordato, quelli che leggono sono molto più numerosi di quelli che “postano”. In particolare questo vale per le ondate di critica e di contestazione. D’altronde tre quarti dei “post” hanno tendenza negativa, diciamo di opposizione verso qualcuno o qualcosa. Facciamo un esempio. Elezioni politiche italiane del 2013. Un vero e proprio terremoto, con il 40 % degli elettori che scioglie diversamente dal passato. L’Italia ci arriva dopo anni di crisi economica, dopo polemiche furibonde sulla casta. Arriva in rete la seguente notizia: il senatore Cirenga ha appena fatto approvare una indennità per i parlamentari del valore complessivo di 134 miliardi di euro. La decisione viene raccontata con tanto di esito della votazione al Senato: favorevoli, contrari, astenuti. Peccato che quel senatore non esiste, la cifra è totalmente senza senso, la votazione non si è mai svolta. Però la diffusione virale della notizia raggiunge centinaia di migliaia di persone, con effetti sul voto che nessuno è stato in grado di misurare. Quindi la rete conta. E non poco. Può distruggere, raramente costruire. Ma può fare davvero male.

Se l’Italia è un pentolone, cosa ci bolle dentro in questo momento?
C’è grande confusione. Gli, elettori sono disorientati salvo assegnare alla politica tutte le colpe possibili e immaginabili. Però poi dentro ogni persona convivono idee e sentimenti in palese contraddizione. Prendiamo le questioni dell’immigrazione. In generale sono tutti o quasi preoccupati. Per la sicurezza, per il lavoro. Cioè trionfa un diffuso timore verso il fenomeno che spesso diventa autentica avversione. Se però si scende sul personale, andando a vedere chi si conosce da vicino, le risposte cambiano. Ecco allora che la badante dei nonni, il benzinaio, i compagni di scuola dei figli diventano amici e buoni, anche se hanno la pelle di un altro colore e gli occhi di forma diversa. Faccio un altro esempio. Gli italiani sono teoricamente meritocratici. Ma appena passi all’applicazione del principio iniziano a protestare. In realtàognuno pensa di essere titolare di un merito non riconosciuto e nel contempofa enorme fatica a riconoscere i meriti degli altri e preferisce un sentimento sospettoso e, tutto sommato, invidioso. Lo stesso vale per le riforme. A parole le vogliamo, ma poi al momento di farle davvero, finiamo per respingerle. Vogliamo le riforme degli altri, quelle che non ci toccano, che non mettono in discussione abitudini e certezze.

«Guarda Renzi. Ha goduto di consensi altissimi per la sua volontà di rottamazione. Finalmente uno che decide, dicevano gli italiani in grande maggioranza. Lo stesso Renzi però, mese dopo mese, subisce un forte cambiamento delle opinioni che lo riguardano. Cambiamento che culmina nel risultato al referendum di dicembre. Molti cominciamo a pensare che è arrogante, che non ascolta nessuno, che ha tratti autoritari. Ma sono esattamente le stesse persone che lo incensavano non molti mesi prima»

Siamo un Paese populista e conservatore allora?
Si, è così. Siamo un Paese populista e conservatore. Recentemente a Londra abbiamo fatto un approfondimento con tutti gli esperti di Ipsos proprio su questo tema del populismo. Mi sono rifiutato di fare i nomi dei leader italiani che possiamo definire populisti. La mia opinione è che il fenomeno ormai rappresenta più un modo di comunicare, cui nessuno riesce a sottrarsi. Un metodo più che una proposta politica. In TV lo vediamo in modo inequivocabile. Così però si finisce per sollecitare l’elemento più volubile dell’opinione pubblica, che spesso ragiona su percezioni. Ecco allora che il vero pifferaio magico non è questo o quel personaggio, ma è l’opinione pubblica inseguita dai politici che cercano di non restare indietro. Guarda Renzi. Ha goduto di consensi altissimi per la sua volontà di rottamazione, perché rifiutava la concertazione senza guardare in faccia a nessuno, cercando di fare riforme mettendoci la faccia. Finalmente uno che decide, dicevano gli italiani in grande maggioranza. Lo stesso Renzi però, mese dopo mese, subisce un forte cambiamento delle opinioni che lo riguardano. Cambiamento che culmina nel risultato al referendum di dicembre. Molti cominciamo a pensare che è arrogante, che non ascolta nessuno, che ha tratti autoritari. Ma sono esattamente le stesse persone che lo incensavano non molti mesi prima. La verità è che i cicli politici si sono clamorosamente accorciati, le opinioni evaporano velocemente. Oggi il populismo altro non è che cercare affannosamente di rincorrere cittadini di cui si coglie sempre meno l’opinione. Nel 2013 Grillo prende oltre il 25 % dei voti. Il Pd di Bersani reagisce con Grasso e Boldrini alla Presidenza della Camere, come segno di apertura e novità. I due Presidenti vengono immediatamente a Ballarò e annunciano una riduzione della loro indennità. Vanno a dirlo in televisione prima che in aula. Per carità, decisione degnissima. Ma così ci si condanna a inseguire, in una corsa che non ha mai fine.

Su quali temi si vincerà la prossima campagna elettorale?
Io dico il lavoro. Però nessuno crede alla ricetta miracolistica. Gli italiani hanno rimesso in discussione i loro comportamenti alla luce della crisi. E si sono adattati. Quindi, ad esempio, bisognerebbe premiare e incoraggiare chi partecipa all’economia e alla società della condivisione.

Vince chi fa il fenomeno o chi è credibile?
Secondo me chi è credibile. Vedo però un derby tra onestà e competenza. Guardiamo il caso di Roma. C’è un atteggiamento di comprensione verso la Raggi, di cui si vedono pochi risultati. Però la sua onestà le fa da scudo. Il M5S tiene proprio su questo punto, anche se non sarà così per sempre. Oggi comunque onestà è variabile di grande forza.

I tre blocchi da 30 % per cento l’uno, cioè Pd, M5S e Forza Italia più Lega e Fratelli d’Italia arriveranno così al momento del voto?
Penso di si. Il sistema è tripolare e renderà difficile lo formazione del governo dopo il voto. Anche le parole di Berlusconi di queste ore chiariscono che in giro c’è una gran voglia di proporzionale. Ne capisco i motivi, ma voglio dire chiaramente che così, dal giorno dopo le elezioni, non sarà una passeggiata. Anche perché una maggioranza Renzi-Berlusconi è tutt’altro che facile da far digerire agli italiani.

«Il Movimento Cinque Stelle tiene benissimo su scala nazionale ma fa fatica a livello locale. Gli argomenti a loro favore indicano una sorta di luna di miele ancora in corso. E poi raccolgono consensi a destra e a sinistra, condizione perfetta per chi si trova all’opposizione. Quando parlano di reddito di cittadinanza guadagnano consensi a sinistra, quando prendono posizione sull’immigrazione e le Ong guadagnano a destra»

Guardiamo ai quattro protagonisti della politica italiana. Cominciamo da Grillo e dal suo movimento.
Il Movimento Cinque Stelle tiene benissimo su scala nazionale ma fa fatica a livello locale. Gli argomenti a loro favore indicano una sorta di luna di miele ancora in corso. E poi raccolgono consensi a destra e a sinistra, condizione perfetta per chi si trova all’opposizione. Quando parlano di reddito di cittadinanza guadagnano consensi a sinistra, quando prendono posizione sull’immigrazione e le Ong guadagnano a destra. Poiché oggi prevale un voto “contro” loro sono certamente ben messi.

Salvini fa più fatica a giocare quella partita?
In parte si. È più estremo, meno bilanciato. E poi nell’elettorato di destra c’è una quota forte di voto moderato, che fatica a seguirlo su una strada così drastica. È più una questione di stile e di toni. Troppo duri per piacere alla profonda anima pacata di un pezzo importante dell’Italia che va a votare.

Qui c’è il serbatoio di voti del Cavaliere?
Si, anche se i suoi stessi sostenitori sanno che non potrà avere il ruolo decisivo giocato in passato. Però gli assegnano una funzione di equilibrio, di sostegno. Berlusconi non sposta come una volta e, anche se va in tv, i suoi consensi non cambiano molto. Però quel 13-14 % di voti di Forza Italia sono totalmente legati alla sua persona. E nell’epoca della proporzionale peseranno non poco. Lui lo sa benissimo, infatti si sta concentrando su messaggi diretti ai suoi. Anche l’operazione con l’agnellino va in questo senso. Il Berlusconi combattente lascia il posto a quello rassicurante.

E Renzi? Proviamo a misurargli la pressione.
Dalle primarie in poi sta recuperando consensi. Sta ritrovando il sostegno di molti che avevano sospeso il giudizio. Certo, potrebbe essere una bolla, ma potrebbe anche essere una via ritrovata di rapporto con i suoi elettori.

Renzi può ancora trovare forti consensi come ha fatto nelle Europee del 2014? Può ancora espandersi verso un elettorato moderato poco o nulla di sinistra?
Nel 2014 Renzi vince in 105 province su 110 e in tutti i segmenti elettorali, ad eccezione della fascia di età 35-45 e dei lavoratori autonomi, che preferiscono Grillo. A mio avviso quella stagione è finita. Non potrà tornare a quei livelli ma arrivare a un risultato positivo. Aggiungo però tre elementi. Fossi in lui non correrei al voto, perché il referendum è stato assolutamente contro di lui e ci vuole tempo per sanare quella ferita. Deve confezionare una nuova ricetta prima di presentarsi agli elettori. Poi c’è un tema di stile, che per essere vincente deve essere meno centrato su di sé. Infine deve riuscire ad indicare una meta, un obiettivo finale. In qualche modo anche un sogno. È un approccio che manca da molto nella politica italiana, però è fondamentale. Due soltanto sono stati capaci di fare questo negli ultimi vent’anni: il primo Berlusconi, quello del ’94, e il Prodi dell’euro. Idee semplici, ma che servono per farsi scegliere.

Renzi avrebbe potuto vincere il referendum di dicembre?
Secondo me si. Faticoso, ma possibile. Troppo pochi erano a conoscenza in dettaglio del merito referendario, si e no il 15 %. Così è finito per essere un referendum su Renzi e non sulle riforme. Pochi giorni prima del voto Renzi fa una intervista con il Corriere della Sera e dice: “è stata una bellissima campagna elettorale”. Peccato che quella non era una campagna elettorale, mauna campagna referendaria che riguardava la costituzione. E la costituzione unisce mentre una campagna elettorale divide. In un sistema tripolare, come pensava di vincere da solo contro due?

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