Il Regno Unito torna al voto, ora l’Europa deve mostrare il suo pragmatismo

Con le elezioni in Regno Unito, verrà scelto chi negozierà nelle trattative su Brexit con l'UE. Nonostante le implicazioni della trattativa siano state ignorate in campagna elettorale, restano questioni spinose come l'atterraggio negli aeroporti europei, il porto di Calais e i financial passports

Il Regno Unito torna al voto, un voto il cui esito determinerà chi negozierà nelle trattative su Brexit con l’UE. Secondo Timothy Garton Ash l’agenda del nuovo governo britannico sarà legata a doppio filo alla Brexit, cosa che gli elettori dovrebbero tenere bene a mente al momento del voto; proprio per questo, quanti sono contrari a Brexit dovrebbero votare strategicamente contro i Tories piuttosto che seguire le proprie preferenze politiche. Sul web si possono trovare due scuole di pensiero sul comportamento elettorale: secondo un approccio “progressista”, il sito web More United e la guida al voto tattico del Guardian hanno scandagliato le circoscrizioni individuando di volta in volta il candidato più progressista alternativo ai Tories. Il sito web Best for Britain, fondato da Gina Miller (salita alla ribalta per il ricorso alla Corte Suprema secondo cui la decisione di attivare l’art. 50 dovesse prima passare dal Parlamento), e il sito In Facts forniscono invece consigli dettagliati sulle diverse posizioni dei candidati sul tema “Europa”.

Secondo Will Hutton (The Guardian) i dettagli e le implicazioni della Brexit sono stati completamente ignorati in questa campagna elettorale. Esempio: ogni giorno, 14.000 camion entrano ed escono dall’UE, e un quarto dell’export britannico diretto all’UE passa attraverso un unico porto, Calais, per un valore di circa 3 miliardi di sterline al mese. Cosa succederebbe se venissero reintrodotti i controlli alle frontiere? La stesso gap informativo riguarda anche altre aree, tra cui i diritti di atterraggio negli aeroporti dell’UE, l’esportazione di farmaci, il commercio con l’eurozona e i financial passports della City. Secondo Hutton Brexit è un monumentale atto di nazionalismo autolesionista da parte del Regno Unito, e non c’è traccia di un dibattito pubblico su come minimizzarne le conseguenze.

Sempre sul Guardian Nick Cohen sostiene che, a prescindere dall’esito del voto, i problemi dei laburisti non svaniranno con queste elezioni, in quanto affliggono le forze socialdemocratiche e progressiste di tutto il mondo occidentale, e che nascono dalla mancata soluzione del conflitto tra ideali di uguaglianza e ideali di equità. L’uguaglianza richiede parità di trattamento di tutti gli immigrati, ma gli elettori laburisti tradizionalisti credono nell’equità, non nell’uguaglianza. E, dal loro punto di vista, non è giusto che milioni di persone che non hanno contribuito allo sviluppo della Gran Bretagna possano beneficiare del vantaggio di viverci.

Secondo Francis Ghilès l’Europa ha bisogno di una dose di pragmatismo: Macron dovrebbe opporsi al tasso standard di inflazione del 2% fissato dalla BCE La politica tedesca costituisce un notevole ostacolo per l’euro a causa del suo impegno a contenere la crescita salariale, il che fa sì che la produttività cresca più rapidamente rispetto agli stipendi dei lavoratori

Secondo George Monbiot, nonostante Jeremy Corbyn non abbia brillato mentre era all’opposizione, rappresenta ora un faro di speranza per coloro che cercano una via di fuga dal governo non eletto del Regno Unito. May, al contrario, vorrebbe fare un passo indietro in materia di tutela sociale e ambientale europea, e d’altro canto non sembra avere un programma forte. Garvan Walshe su Conservativehome invece critica Corbyn per la sua interpretazione del terrorismo come una conseguenza “deterministica” delle politiche estere occidentali anziché come un’ideologia politica da combattere. In questo rimane coerente con un approccio marxista alle scienze sociali che, nei loro tentativi di scimmiottare la precisione delle scienze naturali, continuano a ignorare l’influenza del fattore umano nella violenza politica. Questa incapacità di attribuire responsabilità morali ai terroristi si traduce troppo facilmente in una giustificazione del terrorismo stesso.

Francis Ghilès osserva che l’Europa ha bisogno di una dose di pragmatismo; secondo l’autore, Macron dovrebbe opporsi al tasso standard di inflazione del 2% fissato dalla BCE. La politica tedesca costituisce un notevole ostacolo per l’euro a causa del suo impegno a contenere la crescita salariale, il che fa sì che la produttività cresca più rapidamente rispetto agli stipendi dei lavoratori. Tutto questo, in combinazione con una politica fiscale restrittiva, ha portato a una compressione della domanda da parte dei consumatori tedeschi a discapito delle esportazioni degli altri paesi. Macron potrebbe cercare il sostegno della forte tradizione monetaria tedesca e chiedere che le principali banche centrali di Europa, Stati Uniti e Giappone abbandonino l’obiettivo standard di inflazione del 2%, facendo leva sul fatto che tassi a zero o negativi derivanti da questa politica hanno generato enormi bolle nel mercato azionario in tutto il mondo. Di contro, potrebbe sostenere un ritorno all’ortodossia monetaria in cui le banche centrali – piuttosto che a un obiettivo permanentemente fisso al 2% annuo – puntano a prezzi stabili, che tendano ad avvicinarsi al valore medio di lungo periodo.

Janosch Delcker su Politico discute di come in Germania Merkel e Schulz siano impegnati a contendersi il titolo di “Europeista dell’anno”. La SPD sta cercando di far arrivare il messaggio secondo cui se gli elettori tedeschi vogliono veramente assistere al cambiamento dell’Unione europea, saranno necessari nuovi volti sia a Parigi sia a Berlino. Se la SPD vuole imporsi come il partito di una maggiore integrazione europea, dovrà prima vincere una sfida: la maggior parte dei tedeschi sono europeisti, ma non sono disposti a pagare oltre. C’è inoltre la questione di come la SPD possa un domani agire in modo significativamente diverso rispetto alla Merkel. La strategia di Schulz finora è stata quella di spingere sulle proposte di riforma del bilancio dell’UE, centrate non tanto sul “quanto” la Germania pagherebbe in più o in meno, ma piuttosto sul “come” le risorse del bilancio europeo vengono impiegate.

Guy Verhofstadt fornisce un esempio di questo tipo di approccio applicato alla difesa europea. Più che raggiungere il requisito di bilancio del 2% richiesto dalla Nato – per altro non raggiunto dalla maggior parte dei paesi europei – sarebbe meglio considerare quanto efficientemente viene speso il denaro. A livello pro capite, l’Europa spende poco più del 40% di quanto spendono gli USA per la difesa, ma allo stesso tempo dispone di circa il 10-15% della capacità operative. Come sottolinea giustamente Judy Dempsey di Carnegie Europe, i paesi europei hanno progetti per 17 diversi carri armati, 20 caccia, 29 cacciatorpedinieri o fregate e 20 sistemi di siluri, e tutto questo è uno spreco: se l’unione investisse più strategicamente, all’interno di un’unica strategia di difesa e di un mercato unico della difesa, potrebbe permettersi forze militari tra le più tecnologiche e potenti del mondo.

Traduzione dall’originale a cura di Veronica Langiu

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