Si fa presto a dire “bene comune”. Uno degli economisti più autorevoli in materia, il premio Nobel per l’economia 2014, Jean Tirole, ha appena firmato un libro sull’argomento, “Economia del bene comune”, pubblicato in Italia da Mondadori. La sua lunghezza, oltre 500 pagine, la dice lunga sulla complessità dell’argomento. Non ci sono scorciatoie, è il messaggio del volume, presentato al Festival dell’Economia di Trento. “Bene comune” è solo l’obiettivo, ma gli strumenti variano moltissimo. Diversi beni vanno regolati in modo diverso. Non è detto che il settore pubblico sia meglio di quello privato nella loro gestione, come nel caso dell’acqua. Né vanno tirati in mezzo questioni morali o la semplice indignazione, perché tutto questo ha portato nel passato a battaglie che oggi ci sembrano assurde come quelle contro l’omosessualità, i matrimoni inter-razziali, il pagamento degli interessi. Nei ragionamenti di Jean Tirole, come ha ricordato nella presentazione dell’incontro di Trento Salvatore Rossi (Banca d’Italia), al lettore rimangono più dubbi che certezze. Ma alcuni punti fermi ci sono. Primo: la necessità di porsi dietro a un “velo di ignoranza”, ossia chiedersi che tipo di società vorremmo immaginando di non essere ancora nati e non conoscendo quindi ancora la nostra posizione nella società. Secondo: la necessità di difendere le “vittime invisibili” delle decisioni, non solo quelle visibili – come i lavoratori tutelati che stanno per perdere il posto di lavoro. È nell’identificare questi “invisibili” e difenderli che risiede uno dei compiti principali degli economisti, figure sulle cui funzioni, limiti e responsabilità si concentra una larga parte del lavoro enciclopedico di Tirole. L’imprescindibilità dei dubbi, tuttavia, non significa che le conclusioni dell’economista finiscano con l’essere noiose (ci sono tanti aneddoti da fare invidia a La Ricchezza delle Nazioni di Adam Smith) e banali. Basti pensare alle critiche dure che il premio Nobel specializzato in beni comuni e antitrust aveva riservato all’accordo di Parigi sui cambiamenti climatici, quelli che il presidente Usa Donald Trump ha da poco ufficialmente ripudiato. Dopo il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo, ha spiegato a Trento, possiamo riflettere su quanto le soluzioni trovate nella Cop21 fossero insufficienti e siamo nelle condizioni di capire un aspetto fin qui trascurato: che combattere i cambiamenti climatici avrà dei costi e che parlare di una “crescita verde” è un concetto che ci piace coltivare ma che non è necessariamente vero. Proprio da qui inizia la chiacchierata di Tirole con Linkiesta, poco prima del suo intervento dal palco della facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Trento.
Professor Tirole, l’accordo di Parigi è stato ripudiato da Donald Trump. Ma era un accordo efficiente? O era un accordo “ingiusto”, come lo ha definito Trump durante il “discorso del ripudio”?
Penso che l’accordo della Cop21 di Parigi abbia dato una giusta diagnosi ai problemi dei cambiamenti climatici. Si è detto che dobbiamo fare molti sforzi insieme perché l’aumento della temperatura resti sotto i due gradi Celsius. Si è deciso che abbiamo bisogno che ci siano trasferimenti ai Paesi meno sviluppati, perché naturalmente questi vogliono crescere. Ma comunque il processo della Cop21 è stato insoddisfacente perché la conferenza si è conclusa solo con delle promesse collettive: nel giorno in cui è stato siglato tutti hanno dichiarato vittoria ma nessuno si è impegnato a fare qualcosa. Per questo sono stato critico sull’accordo, non lo consideravo abbastanza ambizioso. Quanto fosse debole l’accordo lo dimostra il fatto che ora un Paese può uscirne senza alcun costo. La mia preoccupazione, dopo l’uscita degli Stati Uniti, è che questo sia visto come la scusa per gli altri per non fare niente, perché non ci sono dei veri vincoli.
Ma cosa ha pensato quando Trump ha annunciato l’uscita dall’accordo?
Sono stato deluso, naturalmente, ma non sono stato sorpreso, perché in qualche modo lo aveva promesso ai suoi elettori da molto tempo. Questo significa che continueremo a rimandare di risolvere i problemi, come stiamo facendo da 25, a partire dalla conferenza di Rio del 1992. Ma a un certo punto ci ritroveremo con le spalle al muro e questo sarà drammatico per l’umanità.
Ora cosa si aspetta che succeda? Che tutto starà fermo ancora per molti anni?
Vedremo la resistenza dell’amministrazione Trump. Anche negli Stati Uniti le persone sono preoccupate dal cambiamento climatico. Quello che dobbiamo fare è convincere le persone che in realtà abbiamo bisogno di un “carbon pricing”, di assegnare un prezzo alle emissioni di CO2. Non riusciremo a risolvere il problema se non ci occuperemo di questo. Ci saranno buone notizie, come il fatto che l’energia solare diventerà più economica, ma senza una regolazione dei prezzi delle emissioni non si otterranno progressi sufficienti su quei fronti.
Il processo della Cop21 è stato insoddisfacente perché la conferenza si è conclusa solo con delle promesse collettive. Quello che dobbiamo fare è convincere le persone che in realtà abbiamo bisogno di un “carbon pricing”, di assegnare un prezzo alle emissioni di CO2. Non riusciremo a risolvere il problema se non ci occuperemo di questo
Lei invita a rifuggire i giudizi affrettati. Quali sono i principali errori del “senso comune” sui “beni comuni”?
Ci sono molti pregiudizi (bias) cognitivi. Nel libro mi concentro su due in particolare. Il primo è che noi crediamo in quello in cui noi vogliamo credere. È una cosa naturale, per esempio pensiamo che il climate change sarà risolto dal progresso o dalla tecnologia oppure pensiamo che il debito nazionale sparirà perché avremo una rapida crescita. Questo è un problema, perché tendiamo a procrastinare le politiche che dovremmo mettere in atto. Il secondo grande errore cognitico è che noi tendiamo a vedere gli effetti diretti e ci dimentichiamo degli effetti indiretti delle politiche. La strada per l’inferno economico è spesso lastricata di buone intenzioni. Ci sono politiche che hanno dei beneficiari diretti ben visibili, per esempio le persone con lavori a tempo indeterminato. Sembrano buone policy ma le persone no vedono gli effetti indiretti. Le vittime indirette sono i disoccupati e quelli che si muovo da un contratto a termine a un altro. Parte del lavoro degli economisti è proprio dire: “attenzione, ci sono anche vittime indirette”.
Non dovremmo dare ascolto a chi rischia di perdere il lavoro?
Dovremmo essere consapevoli che spesso soggetto come i lavoratori a tempo indeterminato che rischiano di perdere il lavoro sono più “vocali” degli altri. Perdere il lavoro è un dramma, sicuramente, perché le persone spesso vivono in Paesi dove ci sono sempre meno opportunità di lavoro e sanno che sarà difficile trovare un lavoro simile a quello perso. Ma tutti gli altri lavoratori o disoccupati non si sentono e spesso non sanno neanche loro quello che gli economisti dovrebbero dire loro.
Donald Trump nel suo discorso del ripudio della Cop21 e durante la campagna elettorale ha reso visibili vittime come i lavoratori della “Rust Belt”. Molti si sono resi conto solo allora che la globalizzazione creava dei perdenti da tutelare.
Per ogni tipo di policy abbiamo vincitori e vinti. Con la globalizzazione o la digital economy abbiamo molti vincitori e molta ricchezza. Ma abbiamo anche i perdenti e non possiamo ignorarli. Ci sono molte persone che hanno perso il lavoro, in vari Paesi. Ci sono poi altri “perdenti” di cui non probabilmente non ci stiamo curando. Anche così, globalmente abbiamo avuto buone politiche per incrementare la ricchezza e l’occupazione. I populisti oggi stanno giocando sia con la frustrazione sia con le paure. La frustrazione per esempio riguarda la crisi finanziaria, la disoccupazione, l’immigrazione. Ma giocano anche con le paure, come il climate change e la rivoluzione digitale e la rotazione dei lavori, le future migrazioni. Dobbiamo spiegare il quadro completo, ma anche proteggere meglio chi perde. Ci saranno sempre più perdenti, perché le cose stanno per cambiare molto velocemente, a causa della digital economy. Nel futuro dovremo proteggere i lavoratori e non i posti di lavoro, come abbiamo fatto sempre in Europa.
È necessario difendere le “vittime invisibili” delle decisioni economiche, non solo quelle visibili come i lavoratori tutelati che stanno per perdere il posto di lavoro. È nell’identificare questi “invisibili” e difenderli che risiede uno dei compiti principali degli economisti
Pensa che gli “unicorni” tecnologici, come Uber o Foodora stiano rendendo il mondo ancora più disuguale, per esempio perché creano dei lavoretti, da “gig economy”?
Penso che i governi dovrebbero essere neutrali circa il contratto di lavoro. Che uno sia un dipendente o un indipendente, per esempio se si è un autista o un autista di una compagnia come Uber, in entrambi i casi dovrebbe avere una protezione sociale, dei contributi per la sicurezza sociale, dovrebbe pagare tutte le tasse, avere la stessa pensione, avere l’assicurazione sanitaria. Ci dovrebbe essere un campo di gioco di base dove le persone possano scegliere dove vogliano giocare. Il governo non dovrebbe decidere se uno debba essere dipendente o indipendente. Ma dovrebbe dare a tutti la stessa protezione.
Pensa che le autorità antistrust li stiano trattando nel mondo più adatto questi unicorni tecnologici, come Amazon o Google, o dovrebbero cambiare il loro approccio?
Alcuni di questi modelli di business si basano sul principio del “winner takes all”, e questo è sicuramente un grande problema per le economie. Quello che dobbiamo rendere certo è che da una parte ci deve essere la “contendibilità”, cioè che se un concorrente entrante è più efficiente su qualche segmento di mercato o nicchia, non possa essere bloccato da un incumbent. E bisogna essere certi che le piattaforme non abusino della propria posizione dominante. Di queste policy parlo un po’ nel libro. Ma è chiaro che noi economisti dobbiamo lavorare molto di più per pensare nuovi tipi di regolazioni, per aiutare le autorità antitrust a trattare questi monopoli.
Perché non possiamo vendere organi o dedicarci al “lancio del nano”, due esempi che lei cita nel libro come attività che non dovrebbero essere soggette a meccanismi di mercato monetari. Dov’è il limite da porre al mercato?
Intanto diciamo che l’indignazione non è un buon metro. Potrebbe essere un parametro molto negativo. Perché spesso chi si indigna prova a imporre il proprio giudizio sugli altri. Quel che provo a fare nel libro è chi spesso che prova a “vendere indignazione” non capisce o fraintende quello che fanno gli economisti. Noi parliamo ogni momento di fallimenti del mercato e di come si possano regolare. Nel caso della vendita di organi, quello che provo a dire è che dovremmo avere delle analisi scientifiche. Non si può limitarsi a dire: “Non mi piace questo mercato”. Nel passato alle persone non piaceva che ci fossero assicurazioni sulla vita o il pagamento degli interessi. Le persone 50 anni fa dicevano che era immorale essere gay o sposare qualcuno di una razza diversa. Non ci si può limitare a lanciare altre posizioni del genere. Bisogna analizzare se ci siano delle vittime e dopo identificare una soluzione.
L’acqua deve essere gestita dal pubblico? «Bisogna farsi una domanda: se non fossi nato e non sapessi quale sarà il mio ruolo nella società, in che tipo di società vorrei vivere? Alla fine, vorrei vivere in una società in cui l’acqua è usata in modo efficiente ed è disponibile per le persone che ne hanno davvero bisogno. Questo è un obiettivo. Gli strumenti possono essere però diversi»
In Italia quando di parla di “beni comuni” viene in mente la battaglia referendaria per l’acqua pubblica. Molte persone ritengono che solo lo Stato possa tutelare un bene comune come l’acqua. Cosa ne pensa?
Il “bene comune” è un’aspirazione. Nel libro spiego il concetto del “velo di ignoranza”. Bisogna farsi una domanda: se non fossi nato e non sapessi quale sarà il mio ruolo nella società, in che tipo di società vorrei vivere? Alla fine, vorrei vivere in una società in cui l’acqua è usata in modo efficiente ed è disponibile per le persone che ne hanno davvero bisogno. Questo è un obiettivo. Gli strumenti possono essere però diversi. È in queste circostanze che gli economisti possono essere utili, perché possono discutere su quale sistema funzioni meglio. Possono andare bene sia uno strumento pubblico che uno privato, non c’è ragione per cui un bene comune debba essere necessariamente fornito dal settore pubblico. A volte è più efficiente se viene somministrato dal settore privato. Ma l’importante è ricordarsi che il bene comune è un obiettivo e non va confuso con uno strumento.
Ritiene che l’elezione di Emmanuel Macron alla presidenza della Repubblica francese possa cambiare l’Europa? Più nello specifico, pensa che possa raggiungere il suo obiettivo di avere un ministro delle finanze europeo con un budget comune?
Bisogna intanto ricordarsi che il 50% dei francesi ha votato per partiti anti-europei. Quindi l’elezione di Macron è davvero una buona notizia per l’Europa. Auspicabilmente, la prima cosa da fare è ricostruire la fiducia nella coppia franco-tedesca, per provare a far andare avanti l’Europa. In termini di quello che debba essere fatto per l’Europa, la mia visione è che Macron dovrebbe per prima cosa muoversi sull’assicurazione comune sui depositi. Una delle grandi cose successe all’Europa nell’ultimo anno è stata la “Banking Union”. Con l’unione bancaria si può avere un campo da gioco dove giocare alla pari, con una regolamentazione da parte della Bce. Ma non abbiamo ancora un’assicurazione comune sui depositi.
Che dire degli altri obiettivi europei di Macron?
Un’assicurazione comune sulla disoccupazione sarebbe più difficile, perché ogni Paese ha la sua politica sul lavoro. Non vedo quindi una soluzione comune per combattere la disoccupazione. Su altri fronti, se si vuole un budget condiviso o gli eurobond, bisogna avere coscienza che si ha anche bisogno di regole comuni e di leggi comuni. Bisogna capire che non si può avere allo stesso tempo più Europa e più sovranità.
Se fosse un elettore britannico, chi voterebbe tra Corbyn e May?
Provo a stare lontano dalla politics, ma voterei per qualcuno che si battesse per il bene comune. Il che significa una persona moderna che accetti il fatto che ci sia il mercato e che serva una regolazione intelligente. Non mi piace una visione pro-mercato che non preveda regolamentazione e welfare e non mi piace chi invoca il protezionismo. Abbiamo bisogno di visioni più moderne e di persone che vedono il mercato e lo Stato come complementari, non come alternativi.
Nel caso di questioni come la vendita degli organi, dovremmo partire dalle analisi scientifiche, non dall’indignazione. Non ci si può limitare a dire: “Non mi piace questo mercato”. Nel passato alle persone non piaceva che ci fossero assicurazioni sulla vita o il pagamento degli interessi. Le persone 50 anni fa dicevano che era immorale essere gay o sposare qualcuno di una razza diversa