Il bastone. Con l’inizio dell’anno scolastico è iniziata una nuova forma di razzismo. A propugnarla è Christian Raimo, ex scrittore, che nel pamphlet molto informato e molto noioso Tutti i banchi sono uguali, denuncia il suo radicale razzismo contro gli studenti di genio e contro gli studenti ‘bene’, i ricchi. Il succo del libro, l’ennesimo saggio sul disfacimento della scuola pubblica italiana, è questo: “la scuola italiana è classista, ha l’ambizione di esserlo, ma siccome non può dichiararlo apertis verbis, cerca di mistificare gli strumenti di difesa di questo classismo”. In verità il classista – è un classico – è proprio lui, Raimo, con la tunica da Madre Teresa di Calcutta della didattica, che ritiene – ideologicamente – che i ricchi siano più felici degli altri e che i migliori non vadano aiutati a fare ancora meglio. Il libro, altrimenti degno del macero – ora abbiamo capito cosa c’è dietro l’infantile, infelice can can di Raimo in tivù, alla corte di Belpietro: strategia promozionale, che furbetto – va considerato come il primo, consapevole esempio di saggistica vintage. Mi spiego. Pigliamo un concetto come questo: “I ragazzi che provengono dalle classi sociali meno abbienti hanno più probabilità di vivere precoci esperienze di insuccesso, di essere dirottati in percorsi meno prestigiosi e con minori possibilità occupazionali e, di conseguenza, di entrare in condizioni di svantaggio nel mercato del lavoro”. Shakeriamolo con altri concetti facili – già scritti, già detti, già studiati – come questi: “le lezioni private [sono] ovviamente il più grande dispositivo di disuguaglianza censitaria che si produce in Italia”; “Studiare tanto a casa può avere – si sottolinea – la conseguenza non voluta di amplificare le differenze di risultato tra gli studenti che hanno background socio-economici differenti” (a proposito di questa obbrobriosa banalità – che ne sai come vivono i tuoi studenti? – Raimo continua scrivendo che “avere un computer e internet facilmente a disposizione, avere molti libri da consultare a casa, sono tutti fattori che possono essere discriminanti”). Ora aggiungiamo la salsa retorica ‘donmilanista’ associata alla retorica che sono “tutti contro don Milani” (liturgia intellettuale francamente fasulla a 50 anni dalla morte del guru di Barbiana, dopo gli applausi di papa Francesco, la benedizione editoriale del ‘Meridiano’ Mondadori che ne raccoglie Tutte le opere – non esiste, per capirci, un ‘Meridiano’ analogo che raduni tutte le opere di Alessandro Manzoni… – e il romanzo agiografico di Eraldo Affinati, L’uomo del futuro). Il risultato è un ‘saggio’ che pare scritto (volutamente?) negli Settanta, solo che negli anni Settanta, sulla scuola, aveva già capito tanto Pier Paolo Pasolini, in una notissima ‘lettera luterana’, Le mie proposte su scuola e Tv, quando ragiona sui “sottoproletari romani” che “hanno perduto (devo ripeterlo per l’ennesima volta?) la loro ‘cultura’, cioè il loro modo di essere, di comportarsi, di parlare, di giudicare la realtà: a loro è stato fornito un modello di vita borghese (consumistico): essi sono stati cioè, classicamente, distrutti e borghesizzati”. Ragion per cui, “lo so che è utopistico”, PPP proponeva di “abolire sia la scuola d’obbligo che la televisione”. Per carità, Raimo rimbambirebbe di rabbia di fronte a concetti simili, nella sua zucca hanno trapiantato il cervello di un alto burocrate sovietico leninista – allora sì che le scuole funzionavano… – non va oltre la dialettica spuria della “scuola che divideva i Gianni (i figli dei contadini) dai Pierini (i figli dei ricchi)” (concetto che gli sta particolarmente a cuore, da libro Cuore, visto che lo ribatte, con lo stesso tono, a pagina 16, a pagina 34 e a pagina 72). Colmo di boria intellettuale (che cavolo vuol dire una frase come questa: “All’impressionismo dei consigli dei docenti sembra si affianchi una sorta di inconscio darwinismo sociale, esercitato da quella che appunto abbiamo definito violenza simbolica”), di irritante francescanesimo (lo sketch alle pagine 75-77, in cui Raimo scopre quanto è talentuoso Giuseppe, ragazzo affetto da “disturbo specifico dell’apprendimento”, se lo si stuzzica giocando e gli si dà fiducia con voti più alti, è così patetica che sarebbe espunta pure dai Fioretti), Raimo vuole, probabilmente, ritagliarsi un posto al sole della fama. E la scuola, si sa, soprattutto a inizio anno, è un tema ineludibile e atrocemente pop. L’egualitarismo classista di Raimo, per cui, scolasticamente, Leningrado è la Gerusalemme celeste, considera tutto – dati, fonti, sociologia fai-da-te – tranne l’unica cosa che conta, la scuola. Fatta, per lo più, da insegnanti volenterosi ma fifoni, servi del ‘programma’ che ghigliottina il genio (parola, per Raimo, probabilmente, da censurare) e culla futuri elettori mediamente disinformati che metteranno la X sulla scheda nel posto giusto al momento giusto. Ecco, scarcerare gli insegnanti dai ‘programmi’ scolastici e far proliferare scuole e sistemi educativi sarebbe una bella, prolifica, battaglia. Per la creatività prima che per la libertà. Il punto – che a Raimo, il don del grigiore classista, sfugge – è che è ora, nell’era di Wikipedia, di un post su Facebook pigliato per le tavole dell’alleanza e di una stronzata in forma rap considerata alla stregua dei pensieri di Pascal, nell’epoca in cui non c’è tempo da perdere in fumosi sofismi, di educare uomini, non più cittadini.
P.S. Inaccettabile nello scritto di Raimo, infine – ma è il fondamento – è la scrittura. Scialba, soporifera. Raimo ha definitivamente ucciso lo scrittore che era in lui, e come tutti i giornalisti che hanno paura di fare i giornalisti, farcisce il suo scritto di dati, si nasconde dietro le cifre e i libri scritti da altri, non avendo nulla di altro da proporre.
Christian Raimo, Tutti i banchi sono uguali, Einaudi 2017, pp.152, euro 16,00
La carota. In una vita precedente facevo il preside, pardon, il ‘dirigente scolastico’. Ho diretto, per un paio di anni, un liceo linguistico. Si trattava di una scuola ‘paritaria’, cioè con gli stessi oneri della ‘pubblica’ ma senza gli stessi onori (cioè, i soldi). La scuola era legata all’ordine dei frati Servi di Maria, lo stesso cui apparteneva fra’ David Maria Turoldo. Un giorno una ragazza piuttosto abbiente e con la media del 9 bussò in presidenza. Protestava perché l’insegnante di matematica – un dottorato in fisica all’Università di Bologna – non le pareva bravo, “lo licenzi”, mi disse, testualmente, “se in albergo un cameriere non funziona, mio padre lo licenzia”. Proprio così: il prof come cameriere, paghi e ti deve soddisfare. Poi c’è lo scrittore talentuoso che per il consesso dei prof, nonostante fosse piuttosto abbiente, non valeva più di 6; poi c’è il più ricco di tutti, bocciato due volte, che passava le ore scolastiche in spiaggia e che ho ripescato dal ring del nulla convincendolo a leggere Le memorie del sottosuolo di Dostoevskij; poi c’è la ragazza con l’insegnante di sostegno, un vero demonio, un giorno ha tagliato i capelli di un compagno con le forbici e l’altro ha spaccato la finestra del bagno con il gomito, che lavorava solo sotto la mia minaccia e capii quanto le piaceva Eugenio Montale; poi c’è l’albanese con la media del 10 che non riesce a pagare la retta scolastica e il frate che insegnava religione – un genio della didattica, già eremita, che proponeva al collegio docenti che voleva le classi ‘fascistissime’ dove tutti hanno almeno 8, di non dare più i voti – che metteva i soldi di nascosto dai confratelli. Non sono storie di eroismo, ma di scuola comune, che capita a tutti, tutti i giorni, che non vanno scritte nei libri, pensandosi dei santi o dei sapienti. In quella scuola, sfidando i prof (“gli insegnanti si ostinano a recitare il ruolo degli insegnanti, benché abbiano perso ogni credibilità agli occhi degli alunni”), mettemmo a punto un progetto scolastico basato su alcune parole chiave – servizio, comunità, maternità, misericordia – e fondammo una piccola casa editrice (nulla di costoso: il prof di informatica mise a punto un programma banale per cui bastava impaginare un libro, stamparlo con la fotocopiatrice, piegare i fogli a metà e il tomo era fatto) per pubblicare gli esiti del lavoro fatto in classe, insieme. Qualcosa di questo lavoro – visto che a Raimo piacciono i dati e le fonti – è recepito nel numero 202 di “Servitium” (luglio/agosto 2012), pp.91-96, Imparare a scuola. I grandi insegnanti, per fortuna, esistono ancora. Uno di questi, Flavio Nicolini, che “ha lavorato come maestro elementare fino al 1964, proponendo una scuola d’avanguardia basata sulla libera utilizzazione del disegno e della pittura”, è stato anche aiuto regista di Michelangelo Antonioni in Deserto rosso e brillante sceneggiatore per la Rai. Scomparso nel 2015, ora, finalmente, cominciano a venire a galla i suoi testi inediti, come le 77 illuminazioni poetiche, dove la poesia è descritta come “quella cosa azzurra/ che nessuno più vuole”. D’altra parte, un poeta come Andrea Temporelli ormai da anni, con competenza e intuito, in un sito fatto piuttosto bene, www.andreatemporelli.com, ragiona di scuola. Entrambi, ovviamente, non sono considerati da Raimo, troppo preso a far quadrare, a suon di percentuali e di statistiche, i piani quinquennali del sistema scolastico che piace a lui. La scuola non ha bisogno dell’ennesimo intellettuale che sa tutto lui, ha bisogno di poeti, di inventori, di maestri.
Flavio Nicolini, 77 illuminazioni poetiche (1954-2006), a cura di Tiziana Mattioli, Raffaelli 2017, pp.124, euro 18,00