Il Kurdistan iracheno perde il suo leader. E l’Iraq rischia di diventare una polveriera

Si è dimesso Masoud Barzani che aveva promosso il referendum per l’indipendenza dall’Iraq. La regione curda impoverita dalla crisi economica, affollata di rifugiati, lacerata tra le fazioni che si contendono il potere, potrebbe creare un effetto domino incontrollabile

SAFIN HAMED / AFP

Le dimissioni di Masoud Barzani, il leader del Kurdistan iracheno che aveva promosso il referendum per l’indipendenza dall’Iraq poi svoltosi il 25 settembre e che ieri ha rassegnato le dimissioni dalla carica di presidente del Governo regionale curdo, chiudono il primo capitolo di una vicenda di cui Barzani è stato prima protagonista e poi vittima. Solo un capitolo, però. Barzani, dimettendosi, ha affidato il Kurdistan a un Parlamento che lui stesso non convocava da quasi dieci anni e che aveva tirato in ballo solo per avere una ratifica formale alla decisione di tenere il referendum, decisione che era tutta sua. La regione curda dell’Iraq è impoverita dalla crisi economica, affollata di rifugiati e ora lacerata e divisa tra le fazioni che si contendono il potere. Potrebbe essere solo l’inizio di un effetto domino difficile da controllare.

Barzani, d’altra parte, si era lanciato in una scommessa molto azzardata e, considerato il quadro regionale e internazionale, difficile da sostenere. “La Turchia è determinata ad agire se la sua sicurezza nazionale è minacciata”. Così, con un parere chiaro e forte, i ministri di Ankara avevano accolto l’esito sul referendum sull’indipendenza del Kurdistan. A prescindere dal risultato, la chiamata alle urne del 25 settembre è sempre stata considerata illegittima dal presidente Erdoğan che si è dichiarato pronto a qualsiasi tipo di azione nel momento in cui gli interessi nazionali della Turchia fossero stati compromessi, aggiungendo che Ankara considera solo il governo centrale di Baghdad come legittimo interlocutore.

Le contromisure non si sono fatte attendere: il 16 ottobre la Turchia ha chiuso lo spazio aereo con l’Iraq settentrionale. Una mossa intesa a consentire al governo centrale di Baghdad di togliere ai curdi il controllo del valico di frontiera Ibrahim Khalil (Habur). La Turchia, infatti, sostenendo l’azione del Governo centrale iracheno a Kırkuk, si dichiara solidale con la difesa della piena integrità territoriale e unità politica dell’Iraq. La priorità comune ad Ankara e a Baghdad sarebbe ricostruire la struttura demografica della città, dove risiede anche una vasta popolazione turkmena, ed evitare che l’amministrazione curda prenda il controllo della provincia ricca di petrolio.

Insomma, l’emergere di uno Stato curdo ai confini poneva non poche preoccupazioni alla Turchia, già impegnata a fronteggiare il terrorismo separatista interno a firma del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) e a controllare il terrorismo islamico che opera appena al di là del confine con la Siria e in Iraq. Fronti diversi, che il Governo turco considera però parte di un’unica battaglia. “Non permetteremo mai la formazione di stati terroristici. Tutte le opzioni sono sul tavolo riguardo l’Iraq e la Siria. Stiamo ora intraprendendo nuovi passi. Lo abbiamo fatto con l’operazione Scudo Eufrate in Siria. Non ci impediremo di fare lo stesso in Iraq”, ha detto infatti Erdoğan.

Barzani non ha afferrato la lezione della Siria né ha capito quanto essa abbia cambiato gli scenari. La svolta siriana ha un suo “anno Mille”, il settembre del 2015, ovvero il momento in cui i russi intervengono con le loro truppe a fianco di Bashar al-Assad. Fino a quel momento si era ancora nell’alveo della tradizionale politica americana e occidentale per il Medio Oriente

Sul fronte siriano, inoltre, le Forze Democratiche Siriane (SDF) e il Partito di Unione Democratica (PYD), di recente hanno liberato Raqqa dall’ISIS. Sette mesi dopo il ritiro delle truppe di Scudo Eufrate, che hanno espulso i gruppi terroristici da circa 2.000 chilometri quadrati di territorio, le forze armate turche hanno attraversato di nuovo la frontiera nella provincia siriana di Idlib, a seguito dell’accordo con Russia e Iran, per sigillare la tregua tra le forze del Regime siriano e i gruppi di opposizione armati. La dichiarazione di Erdoğan sulla possibilità che la Turchia prenda ulteriori iniziative era quindi da intendere anche come la volontà di confrontarsi, nel prossimo futuro, con la presenza delle forze curde siriane nel cantone di Afrin.

Da tempo infatti la Turchia sollecita il PYD a non tentare di creare quello che definisce un “corridoio terrorista” nel Nord della Siria, e l’operazione a Idlib avrebbe lo scopo di aumentare la pressione sulle milizie armate curde, che Ankara considera legate al PKK in Turchia e in Iraq. Lungi dall’essere un progetto utopistico “comunitario’’, come recita la narrazione del Rojava e delle sue milizie, l’obiettivo ultimo del corridoio curdo sarebbe, secondo la Turchia, un progetto nazionale ricco di elementi pericolosi per gli Stati sovrani già esistenti. Insomma, ogni istanza indipendentistica è inaccettabile per la Turchia come lo è per l’Irae e per l’Iran, perché potrebbe minare l’integrità territoriale del Paese, concepito come Stato unitario sin dalla sua fondazione nel 1923.

La pressione congiunta della Turchia e del Governo di Baghdad ha dato i suoi frutti. Quando l’esercito regolare iracheno si è mosso per riconquistare Kirkuk e i preziosi campi petroliferi della regione, i peshmerga curdi non hanno potuto fare altro che ritirarsi all’interno dei confini del Kurdistan “tradizionale”, non quello allargato a cui il Governo regionale curdo ambiva. Con quella ritirata Masoud Barzani, presidente del Kurdistan e dal 1979 leader del Partito democratico del Kurdistan, mostrava di aver perso la scommessa tentata con il referendum del 25 settembre.

La sua, però, non è stata una sconfitta militare bensì una sconfitta politica. Barzani infatti non ha afferrato la lezione della Siria né ha capito quanto essa abbia cambiato gli scenari. La svolta siriana ha un suo “anno Mille”, il settembre del 2015, ovvero il momento in cui i russi intervengono con le loro truppe a fianco di Bashar al-Assad. Fino a quel momento si era ancora nell’alveo della tradizionale politica americana e occidentale per il Medio Oriente: dividere per comandare, frammentare lungo linee di faglia etnico-religiose per impedire la crescita di Stati-nazione, assai più difficili da controllare.

Lo spezzatino era il destino che i politologi e i politici anglo-sassoni avevano immaginato per l’Iraq all’epoca dell’invasione anglo-americana, secondo lo schema delle province (vilayet) del vecchio impero ottomano: un pezzo ai curdi, uno ai sunniti, uno agli sciiti.

Lo spezzatino era il destino che i politologi e i politici anglo-sassoni avevano immaginato per l’Iraq all’epoca dell’invasione anglo-americana, secondo lo schema delle province (vilayet) del vecchio impero ottomano: un pezzo ai curdi, uno ai sunniti, uno agli sciiti. C’era stato anche chi, per completare l’opera, aveva provato a disegnare anche un safe haven, un porto sicuro, una specie di riserva indiana dalle parti di Mosul per i cristiani dell’Iraq.Una soluzione che andava benissimo ai curdi: a quelli iracheni perché garantiva loro, di fatto, quello Stato che vanno cercando da un secolo; a quelli turchi perché potevano sperare in un effetto domino; a quelli di Siria perché il loro Paese veniva subito dopo l’Iraq nella lista dei “Paesi canaglia” stilata da George W. Bush.

Fallito in Siria grazie o a causa dell’intervento russo che ha salvato Assad, quel progetto non poteva certo essere riproposto in Iraq. Frantumare l’Iraq proprio mentre la Siria si ricompattava sarebbe stato un suicidio politico per l’influenza americana nella regione, già minacciata dal ruolo crescente di Russia e Iran e con il rapporto con l’ex alleato Turchia tutto da ricostruire.

Barzani non l’ha capito e si è ritrovato abbandonato anche da Washington (da sempre schierata con il Kurdistan) e con il cerino indipendentista in mano. Anche perché nel frattempo i curdi siriani, quelli del Rojava, avendo letto con più astuzia la situazione sul campo, si pronunciavano non per l’indipendenza da Damasco (e stiamo parlando della Damasco di Assad) ma per un’ampia autonomia all’interno di una Siria federale. Obiettivo non facile ma di certo più raggiungibile.

Con questo, e con le dimissioni di Barzani, si può considerare neutralizzata la mina curda in Iraq e nella regione? Sarebbe un errore crederlo. I sogni che “il più vasto popolo senza uno Stato”, come si dice dei 35 milioni di curdi che vivono tra Iraq, Siria, Turchia e Iran, vide approvati dal Trattato di Versailles (1919) e rinnegati dal Trattato di Sévres (1923), non si disperderanno tanto facilmente. Ma ora il punto caldo si sposta. I prossimi guai, ed è un paradosso solo apparente, arriveranno con la definitiva sconfitta militare dell’Isis: in Siria, perché il Rojava appoggiato dagli Usa potrebbe avere, come teme Erdogan, la tentazione di forzare la mano; e in Turchia, dove il Pkk non accetterà che cali il silenzio sulla questione curda e cercherà di ri-ottenere l’attenzione del mondo.

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